Il corpo tecnologico
La storia del corpo è in sé è la storia di un fraintendimento [1]. Probabilmente se non lo si fosse frainteso, non lo si nominerebbe affatto. Il corpo è un ente che, nei termini stessi in cui lo si pronuncia, non trova una sua collocazione ontologica e nomina di volta in volta un frammento ed un fraintendimento. Il corpo, che si identifica con l’uomo, il corpo che l’uomo è, pure si presta a tracciare la mappa della sua reificazione [2].
D’altro canto, l’utilizzo di questo termine, ancorché necessariamente inadeguato ad indicare quella realtà complessa, opaca e trasparente a un tempo, che è il corpo umano, in questo contesto rinvia proprio a quell’ambivalenza insita nell’uomo, che da un lato lo getta nel mondo animale, dall’altro lo mette in comunicazione con gli dei [3]. L’ambiguità del termine, che dice dell’uomo nella sua totalità, tanto quanto della sua reificazione, indica pertanto proprio quel doppio registro per cui l’uomo, nel suo dominio incontrastato sul globo, si scopre a un tempo dominato, reificato, iscritto nell’economia della «megamacchina».
La percezione dualistica dell’uomo è un modo infantile d’interpretare le cose [4]. Tuttavia è indubbio che proprio una tale percezione sia quella attualmente dominante: non solo il credente considera il corpo un ente separato dall’anima. Anzi è proprio sul terreno della scienza che una tale concezione viene maggiormente accreditata.
Analizzare e comprendere questa percezione richiede la comprensione di quel fraintendimento del corpo che ne è all’origine.
A tal fine è possibile individuare tre modelli del corpo, tre idealtipi nei quali si possono rintracciare i principali nodi che caratterizzano la storia di questo fraintendimento, nonché l’uso culturale – e politico – del concetto di corpo e dei corpi: il corpo escluso, il corpo reale, il corpo tecnologico. Tali modelli sono in relazione con tre momenti storici, o se si vuole con tre estasi nelle quali le caratteristiche ad essi proprie si mostrano nella loro peculiarità: la condanna biblica della carne, la meditazione cartesiana e la scienza moderna, la tecnocrazia e le biotecnologie. Tali modelli non rappresentano tre tappe storiche di una certa evoluzione e non si identificano necessariamente con determinati periodi storici; piuttosto essi si collocano su uno spazio per così dire piano e si intersecano e compenetrano non escludendosi né sostituendosi l’un l’altro. Le tre estasi individuate sono piuttosto epifaniche rispetto al modello, ma non lo esauriscono. In altri termini il modello in questione non è un modello storico, bensì idealtipico.
Significativamente, tale tipizzazione trova conforto negli schemi proposti da Baudrillard in Lo scambio simbolico e la morte e in Simulacri e fantascienza. Egli individua quattro modelli che agiscono sul corpo da quattro diverse angolature: sono l’animale, referenza ideale per la religione, carne da redimere (corpo escluso); il cadavere, modello per la medicina, oggetto di studio (corpo reale); il robot e il mannequin, modello per l’economia politica l’uno, per l’economia politica del segno l’altro (corpo tecnologico) [5]. Ai tre momenti storici individuati in questa sede corrispondono poi i tre ordini di simulacri che Baudrillard enuncia come simulacri naturali, simulacri produttivi, simulacri di simulazione [6]: i primi si iscrivono nell’ordine della religione, e mirano all’istituzione di un mondo e di una natura a immagine di Dio; i secondi sono dell’ordine della produzione capitalistica, mirano all’espansione indefinita e si fondano su una indefinita liberazione di energia; i terzi si iscrivono nel gioco cibernetico e nel mondo dell’informazione.
Per corpo escluso è da intendersi il modello principale della religione, ed in particolare delle religioni monoteiste, laddove l’esclusione avviene sul registro di quell’economia della divisione per cui si ha un mondo terreno, in cui regna la legge della carne, contrapposto a un mondo spirituale che s’innalza alla legge divina. È qui che s’innesca il dualismo tra anima e corpo, in luogo dell’ambivalenza simbolica che vedeva nel corpo il tramite tra il divino e l’animale, come è riscontrabile nel mondo antico precedente la predicazione biblica [7]. Il corpo escluso nomina l’esclusione dell’altro, l’esclusione della donna, l’esclusione e la normalizzazione dell’inconscio. Si tratta di un’esclusione che mira all’istituzione di una legge e che consegue da questa stessa istituzione. La donna, il mostro, il corpo: essi sono accomunati da questa esclusione, da questa repressione della natura in cui essi sono ricacciati e che mira al dominio [8].
Il corpo escluso vede del resto nascere quella particolare tecnica che è l’ascesi, da intendersi come esercizio e pratica di tale esclusione, la quale è a sua volta a fondamento di quelle moderne tecniche che, agendo sul corpo, si configurano sin da subito come pratiche di potere, gestione e razionalizzazione (reclusione, scolarizzazione, medicalizzazione), e per le quali Foucault ha potuto definire l’anima «prigione del corpo» [9].
Con il corpo reale si fa riferimento a quella particolare visione del mondo che si fonda sul dualismo cartesiano e che ha come diretta conseguenza la reificazione del corpo, reso corps-object, oggetto funzionale alla prassi medica e scientifica, studiato, analizzato, razionalizzato e quindi iscritto nell’economia politica in quanto macchina, strumento tecnico da inserire nel computo delle operazioni produttive (meccanizzazione, militarizzazione, industrializzazione) [10].
Come tale il corpo reale affonda le sue radici nello stesso humus del corpo escluso, ed ivi trova le sue ragioni. Il dualismo che sottende alla scienza moderna e che trova in Descartes la sua espressione, è lo stesso che si ritrova all’origine dell’esclusione del corpo: ed anzi è proprio su questa esclusione che si può innestare la sua reificazione. Il corpo reale, frutto di una tecnica di separazione, frutto, se si vuole, dell’esclusione ascetica, si offre come fondo disponibile all’intervento razionale e si iscrive nell’economia dei segni, preparando il terreno alla manipolazione tecnologica. Deprivato dell’anima, esso diviene cadavere, «limite ideale del corpo, [...] che produce e riproduce la medicina nel suo pieno esercizio, sotto il segno della preservazione della vita» [11].
Il corpo tecnologico è per certi versi già presente nei primi due modelli. Con tale espressione non si deve intendere il massiccio apporto delle applicazioni tecniche sul corpo umano. Non è da intendersi soltanto il cyborg. Semmai, esso costituisce solo un aspetto della complessa realtà del corpo tecnologico.
Con la tecnologia [12] si dice di quel particolare carattere autoreferenziale della tecnica per cui il mezzo s’impone come unico fine perseguibile e perseguito, ciò che scandisce il ritmo del progresso tecnico e scientifico (e significativamente anche economico e sociale) e ne detta la legge interna. Pertanto la tecnologia rivela il logos della tecnica, la sua intrinseca ratio, e come tale mostra la struttura metafisica che la sottende.
Il corpo tecnologico si iscrive in quel terzo ordine di simulacri che Baudrillard ha definito di «simulazione», che si fondano sull’in-formazione e sul gioco cibernetico, in uno spazio di «operazionalità totale, iperrealtà, progetto di controllo totale» [13].
In questo contesto il corpo, ancorché reificato, diviene un che di virtuale, aperto al registro della comunicazione e dell’in-formazione.
Svanisce, per così dire, per farsi oggetto puro. Pura virtualità, riserva disponibile per il gioco della simulazione.
Dietro questi modelli si scorge in definitiva la storia di un tentativo di appropriazione dei corpi, e l’iscrizione di questi in quell’economia politica del segno fondata sulla dicotomia tra l’anima e il corpo. Al di sotto di tali modelli, infatti, si intravede il corpo come antioggetto [14] che, sfuggendo ad ogni razionalizzazione, dice di sé come quell’apertura originaria sul mondo che è a un tempo il fondo oscuro dal quale proveniamo. “Inconscio”, “follia”, “desiderio”, “sensualità”, non sono che i nomi via via usati nel tentativo di razionalizzare, definire, isolare questo ente che rimane però assolutamente estraneo ad ogni catalogazione. Tale ente è ciò che può essere designato come corpo proprio [15], ciò che necessariamente deve mantenere un carattere apparentemente vuoto, in quanto necessariamente non definito.
Si può pertanto dire che un filo lega la condanna biblica della carne a quella redenzione secolarizzata cui si perviene con la chirurgia plastica, a questo corpo perfetto sempre più privo di natura e sempre più carico di immagine, un involucro da modellare a piacimento, o il più delle volte in base alle leggi della ripresa televisiva.
Ma se nell’Antico Testamento si trattava di rispondere alla legge di Dio o di perire nella legge della carne fuori di Israele, oggi, venuta a mancare l’istanza trascendente di una legge superiore, non si può che rispondere ad un principio interno al sistema: a quel principio razionale che è poi la “logica di mercato” ipostatizzata come legge necessaria e quindi vincolante più di qualunque dogma di fede. Puro automatismo che non conosce contraddizioni, poiché ogni contraddizione è già iscritta al suo interno, ingerita e incanalata nella produzione illimitata, che è poi la condizione necessaria per la ri-produzione del sistema stesso.
Qui si danno le ultime tappe di quella genealogia che abbiamo cercato di tracciare. L’inganno della tecnologia, che sembra offrire al corpo una possibilità di salvezza, una via di fuga attraverso la liberazione illimitata delle energie represse, la realizzazione di sogni e desideri nell’appagamento pubblicitario, l’invadente disponibilità di ogni bisogno, potrebbe far sgretolare anche quell’ultimo baluardo in cui il corpo aveva trovato rifugio: l’inconscio. Allora si darebbe lo scacco definitivo del corpo. Un’apocalisse silenziosa che rivelerebbe la verità di quell’entropia che ha nel primo fuoco la sua genesi e nella fredda simultaneità del virtuale la sua conclusione e il suo compimento. «Il corpo dell’uomo è [...] muto. Esso poteva parlare finché parlava la natura, e una serie di segrete, esoteriche corrispondenze rimandavano dall’una all’altro, e il ripetersi di riti raccontava ogni volta di nuovo il mito e permetteva di decifrare i segni che sul corpo si erano accumulati. Oggi la natura non esiste più, si è frammentata in una serie di ecosistemi circoscritti, volta a volta minacciati e protetti, accerchiati e fatti emergere da un “ambiente” che della natura ha preso il posto, ma che è, lo sappiamo, completamente artificiale. Il corpo parlava anche per dire, a ogni nuova occasione, la lettera di una legge suprema che illuminava fatti e comportamenti altrimenti insensati. Ma questa legge è ormai desueta, la macchina che ne scriveva gli articoli è impazzita, e ha ucciso l’ultimo custode senza neppure dargli la soddisfazione di offrire il suo corpo come foglio su cui inciderli per l’ultima volta.» [16]
Così Caronia si esprime sul corpo. Nel linguaggio imperante delle tecnoscienze, al corpo umano non resta che dissolversi nel silenzio, stagliandosi ormai solo più come oggetto sullo sfondo di un ambiente ridisegnato dalla tecnologia.
I portati tecnologici sembrano “piovere”, e come il tempo atmosferico sembrano collocarsi al di fuori del controllo umano: pertanto, come non è possibile formulare giudizi di valore sugli agenti atmosferici (neanche sulle catastrofi naturali), non sembra possibile formularne nemmeno sulle tecnologie che sempre più si sostituiscono alla natura. Ma, come fa giustamente notare Pessina [17], già questa posizione risulta derivare da una certa opzione etica, non discussa e anzi comunemente accettata in maniera acritica.
È questo il nodo centrale che dovrebbe forse essere sciolto, o quanto meno analizzato: il triplice legame tra silenzio del corpo, manipolazione biotecnologica e fine dell’uomo (intesa nella doppia accezione dei due generi: teleologia dominante ed inevitabile che pone l’uomo alla fine di sé – post-human).
Un’esigenza d’analisi, evidentemente, che non può trovar risposta nel campo scientifico se non quella dell’autoreferenzialità della tecnica, che ha l’obbligo strutturale di progredire (e su questo Jonas ha scritto pagine illuminanti [18]) o quell’altra altrettanto autoreferenziale dell’economia che ha l’obbligo strutturale del profitto.
Sotto questo riguardo già Günther Anders aveva scritto pagine lucidissime, e per molti aspetti ancor oggi di un’attualità inusitata – e forse insuperata. Nella sua analisi egli sottolineava come la tecnologia abbia imposto al mondo dell’uomo la sua ferrea logica che si esplica nella legge della produzione: «non solo ciò che si può fare si deve fare, ma anche ciò che si deve fare è ineluttabile» [19].
Questa legge ineluttabile ci pone evidentemente di fronte ad una questione del tutto nuova. Con il progredire della tecnica, infatti, si danno possibilità inaspettate, che aprono il campo a dubbi di carattere non secondario: «produrre l’inumano, attraverso la produzione di esseri che sarebbero le “immagini perfette“, – copie di tipi desiderabili per motivi politici, economici o tecnici» [20]. Ciò che conta, qui, non è tanto la produzione dell’inumano come scopo della tecnologia – con ciò si riproporrebbe ancora una domanda sulla natura dell’uomo che non può trovare risposta adeguata negli ambiti canonici. Appunto Anders, poco prima, nota come sia, di fatto, già divenuta assurda la domanda circa la natura dell’uomo. Ora, posta l’assurdità di una tale domanda, resterebbe da interrogarsi circa la natura dell’inumanità, che è a sua volta, evidentemente, una domanda assurda. Piuttosto, ciò che qui conta, è la motivazione di un tale produrre, orientato a fini politici, economici o tecnici.
La questione è ancora una volta prettamente etica, poiché sposta il fine dall’uomo alla logica dell’economia politica. Non solo: essa sposta l’asse ontologico dalla materia all’idea: «noi non viviamo nell’era del materialismo, come lamentano tutti i filistei, ma nella seconda era platonica» [21].
È qui che si dà lo scacco al corpo, che si vorrebbe liberato attraverso la produzione capitalistica e l’appagamento pubblicitario, ma che in realtà è dissolto dietro la virtualità di una simile logica capitalistica.
Tale dissolvenza del corpo si mostra chiaramente nella «condizione eremitica del consumatore (per esempio di televisione)», cui corrisponde la «condizione eremitica degli odierni lavoratori (dell’automazione)» [22].
La dissolutezza della società pubblicitaria, se da un lato pare in contrasto con una tale condizione eremitica, d’altro canto non è che una desessualizzazione dei corpi ed una loro sublimazione, non dissimile, in linea di principio, dal rapimento estatico. Lo stesso fine ultimo della tecnica, a ben guardare, si sposa perfettamente con un’aspirazione di matrice religiosa, che è la stessa, in definitiva, che muoveva internamente la logica dualista del primo yavhismo, tanto quanto la logica intrinseca della scienza [23]. Scrive Anders: «Il tentativo di mediazione della tecnica sta nel rendere superflua la mediazione. Tale obiettivo è noto sotto il nome di “comfort”. Ma questo termine nasconde il vero obiettivo finale. Infatti, in ultima istanza, noi sogniamo di ripristinare l’immediatezza che abbiamo perduto con la cacciata dal giardino dell’Eden; insomma di riconquistare la condizione paradisiaca.» [24]
Questo paese di Cuccagna, come lo chiama Anders, che è il sogno della tecnica, questo invadente comfort che sembra viziare e sollecitare i più bassi istinti non è, in definitiva, che il sogno di liberazione dal desiderio, il sogno di un paradiso liberato dal bisogno – liberato, in buona sostanza, dal corpo stesso.
Da un punto di vista biopolitico [25], questo spostamento dell’asse ontologico, genera due cambiamenti epocali: in primo luogo, attraverso la condizione eremitica dell’individuo, si dà vita ad una massa isolata, una massa cioè, di individui isolati – una massa disinnescata. E, in secondo luogo, si dà, quindi, la possibilità di un totalitarismo morbido che di tale massificazione si nutre: «E’ noto che ci sono prigionieri [...] ai quali si possono lasciare aperte le porte delle celle, tanto si sa che essi, abituati alle quattro mura, non faranno alcun tentativo di evadere o che, se dovessero fuggire, resterebbero prigionieri persino fuori: che insomma non riuscirebbero a liberarsi della cella, in quanto mentalità di cella, neanche in futuro. Non altrimenti che questi prigionieri, anche gli odierni consumatori eremitici si possono lasciare in libertà, tanto si sa che anche lì non smetteranno di comportarsi come eremiti; e che continueranno persino a comportarsi come tali se [...] si troveranno costipati tutti insieme. Ormai del tutto livellati – dunque, esseri di massa – è poco probabile che si concentreranno per formare una massa. Mai il pericolo di un’azione rivoluzionaria di massa è tanto minimo quanto nello stadio della più alta industrializzazione, nel quale ognuno viene ridotto a essere massificato attraverso la manipolazione dei mezzi di massa.» [26]
È questo il risultato di quel graduale affinamento delle tecniche di potere, analizzato da Deleuze, che porta dall’Urstaat alla «macchina capitalistica civilizzata»: «Il campo d’immanenza borghese, come è definito dalla congiunzione dei flussi decodificati, dalla negazione di ogni trascendenza o limite esterno, dall’effusione dell’antiproduzione nella produzione stessa, instaura una schiavitù imparagonabile, un assoggettamento senza precedenti: non c’è più neppure padrone; solo degli schiavi, ora, comandano agli schiavi e non c’è più bisogno di caricare l’animale dall’esterno, dato che si carica da sé.» [27]
Questa è la logica innescata da quelle tecniche e da quegli esercizi in cui eccelsero i monaci medievali (l’ascesi) e che furono all’origine della prigione, nella quale troveranno più tardi la propria ragion d’essere quelle scienze umane contro cui, evidentemente, parla Deleuze. «La cella – scrive Foucault – questa tecnica del monachesimo cristiano e che esisteva oramai solo nei paesi cattolici, diviene in questa società protestante lo strumento con cui si può ricostruire insieme l’homo œconomicus e la coscienza religiosa» [28].
E dunque, per riassumere e chiarire:
1. Esclusione del corpo, nell’ascesi della cella, attraverso cui, come in una specie di alchimia, si ottiene l’anima per un effetto di raffinazione: «non più il corpo, col gioco rituale delle sofferenze eccessive e dei segni risplendenti nel rituale dei supplizi; lo spirito, invece, o piuttosto un gioco di rappresentazioni e di segni circolanti [...]. Non più il corpo, ma l’anima, diceva Mably. Ed è chiaro cosa dobbiamo intendere con questo termine: il correlativo di una tecnica di potere»[29]. È ciò cui mira il monachesimo, in una sublimazione del corpo che offra l’anima all’economia divina. È ciò cui mirerà la prigione, per offrire l’anima del detenuto all’economia sociale.
2. Reificazione del corpo, corpo-macchina come presa diretta sul corpo, disciplina dell’homo œconomicus, che inscrive ogni dettaglio corporeo nella mistica del quotidiano onde trarne i mezzi della produzione capitalistica; economia politica che organizza e gestisce i corpi sin nell’intimo del gesto. Si tratta «da una parte di sottomissione e utilizzazione, dall’altra di funzionamento e spiegazione: corpo utile, corpo intelligibile. [...] L’Uomo-macchina di La Mettrie è insieme una riduzione materialistica dell’anima e una teoria generale dell’addestramento e al loro centro regna la nozione di “docilità” che congiunge al corpo analizzabile il corpo manipolabile»[30].
3. Tecnicizzazione del corpo, dapprima come effetto della tecnologizzazione massiccia dell’ambiente umano (industrializzazione), poi come diretta permeabilizzazione del corpo stesso a quest’ambiente (mediatizzazione). Non è necessario, in questo contesto, immaginare avveniristici panorami da fantascienza, in cui l’uomo e la macchina si siano fusi al punto da generare una nuova forma ibrida (per quanto simili immagini non siano del tutto infondate). L’ibridazione dell’uomo, sotto questo aspetto, è già avvenuta. L’uomo è già un cyborg e non solo o non tanto per il sempre più massiccio apporto di protesi o elementi hi-tech sul corpo organico. Piuttosto, il corpo è tecnologizzato poiché è tecnologica l’interfaccia con la quale l’uomo si relaziona all’ambiente (divenuto, appunto, tecnologico esso stesso).
La spinta, il movimento, la direzione, sono le stesse. La tecnologia non fa che estrinsecare il logos di quella tecnica che già agiva nella cella monastica. È solo, piuttosto, una questione di affinamento.
Il corpo si staglia, in ogni caso, come massa opaca, irriducibile: «richiesto di essere docile fin nelle sue minime operazioni, il corpo si oppone e mostra le condizioni di funzionamento proprie ad un organismo»[31].
Altrove [32], Foucault scriverà: «il mio corpo è il contrario di un’utopia, è ciò che non sarà mai sotto un altro cielo, è il luogo assoluto, il piccolo frammento di spazio col quale letteralmente faccio corpo». È contro questo luogo «a cui sono condannato senza appello» che l’uomo produce mille utopie, mille tecniche intese a negare il corpo, cancellarlo, segregarlo, sublimarlo. E «forse la più ostinata, la più potente di queste utopie con le quali cancelliamo la triste topologia del corpo, ce la fornisce dal profondo della storia occidentale, il mito dell’anima»: «Essa è il mio corpo luminoso, purificato, virtuoso, agile, mobile, tiepido, fresco; è il mio corpo liscio, castrato, arrotondato come una bolla di sapone. Ecco: in virtù di tutte queste utopie il mio corpo è svanito. Svanito come una fiamma di candela quando ci soffiamo sopra. L’anima, le tombe, i geni e le fate ne hanno fatto man bassa, l’hanno fatto scomparire in un batter d’occhio, ne hanno cancellato la pesantezza, la bruttezza, e me l’hanno restituito splendido e perpetuo.»
E tuttavia, «a dire il vero [...], il mio corpo non si fa ridurre così facilmente».
D’altro canto, a dispetto di questa irriducibilità del corpo, della materia – e contro di essa – la tecnologia sembra operare una trasfigurazione della carne, alchimia cibernetica che trasmuta la materia vile in eterica sostanza. «Nowadays – dice Rodotà – the body is the focus of almost obsessive attention; it is broken down and then reassembled, regarded from different viewpoint, re-designed, expanded in its physical and social functions, turned into an abstract password as well as into the subject of unrelenting surveillance – a jumble of images that is disconcerting, but ultimately must be re-unified. The homme machine concept is back, and it goes hand in hand with the concept of body as nanomachine.» [33]
In questo corpo «mutato in un’astratta password e soggetto ad una sorveglianza inesorabile»[34], si vede bene il doppio registro su cui si muovono tali tecnologie: da un lato vi è il tentativo (più o meno cosciente, più o meno realizzabile) di riduzione del corpo, di idealizzazione e sublimazione della materia, di trasmutazione; dall’altro tale tentativo è strettamente collegato ad una sempre più sofisticata e sottile pratica di controllo – sia all’origine, come agente del progresso tecnologico, sia alla fine, come conseguenza più o meno collaterale e più o meno inevitabile.
Il corpo viene dunque connesso, inserito in una rete, un network che nel suo stesso nome rivela un aspetto ambiguo, beffardo e infine inquietante, simile appunto a quella cappa weberiana che si rivela in ultima istanza come una gabbia di acciaio.
«The body, which is by definition synonymous with humanity, can be regarded nowadays as the object where the transition that is seemingly dispossessing man of his domain – i.e. physicality – is happening, becoming real, so much so that its features are shaped in the direction of what has long been termed trans-human, or post-human, or else they “border on virtuality”. The body is disrobing itself, it is relinquishing its physicality and moving towards virtuality – thereby becoming an “electronic” body.» [35]
Questo corpo elettronico, post-human, trans-human, è in definitiva il sogno mistico che sottende al vorticoso sviluppo tecnologico [36].
È un indubbio merito di Erik Davies l’aver tracciato una mappa di queste spinte metafisiche, di questa mistica sotterranea che anima il progresso e che inaspettatamente ritorna con forza nel cuore di una società che sembrava fondarsi sulla pura ragione: «I vecchi fantasmi e i desideri metafisici non sono scomparsi del tutto. In molti casi essi si sono camuffati ed hanno proceduto sottoterra scavandosi la loro strada, come lombrichi, nei movimenti culturali, psicologici e metodologici che stanno alla base del mondo moderno. [...] [Il mito della macchina] è stato preconizzato da tutti i miti della cristianità: la chiamata biblica, la conquista della natura, l’etica protestante del lavoro e, in particolare, la visione millenaristica di una nuova Gerusalemme. [...] Questo mito di un’utopia progettata sospinge ancora l’ideologia del progresso tecnologico con le sue eterne promesse di libertà, prosperità e liberazione dalla malattia e dal bisogno.» [37]
Ma, d’altro canto, con la mistica della tecnologia ritorna anche la tecnica sottile di ogni metafisica: «La tecnologia non è né un diavolo né un angelo. Ma non è neanche semplicemente un attrezzo, un utensile, una neutrale estensione di qualche parte della natura umana. La tecnologia è un baro, e lo è sempre stata [...]. Tale truffaldina entità mostra in che modo l’informazione procede in un mondo imprevedibile e caotico; essa ci chiama e ci attrae verso le porte aperte dell’innovazione, poi ci intrappola e ci chiude nella prigione delle conseguenze non previste.» [38]
Così, si assiste a un doppio fenomeno: da un lato, la smaterializzazione dell’uomo, la sua immissione nel virtuale, la sua sublimazione in una metafisica della rete; dall’altro, la tecnologia si fa sempre più organica, corporea, entra in diretto scambio con il fisico e si sostituisce ad esso, immettendo specularmente, con forza, il corpo nella rete tecnologica: «reclining (into virtuality) and data trash (with a will?) – this is the fate of the body in the interminabile countdown of the year 2000» [39].
Questo declinarsi del corpo nella virtualità ha come correlativo l’estendersi dell’operazionalità cibernetica e l’informatizazzione del reale. L’operazionalità cibernetica informa il reale e sempre più sostituisce la logica del vivente a quella dell’informazione. Rodotà ha ragione di preoccuparsi per quegli impianti elettronici (in primis gli Rfid-chips) che vengono impiantati direttamente nel corpo e che fungono da codice a barre virtuale, leggibili a distanza – quindi controllabili – e che stanno trovando già molte applicazioni, in special modo negli States, o di quegli impianti che consentono comandi a distanza – la cui applicazione in ambito medico è indiscutibilmente interessante. «Questi impianti – scrive Rodotà – pongono [...] delicatissimi problemi etici legati al fatto che così non solo viene modificato il corpo, ma soprattutto viene introdotta la possibilità di un condizionamento dei comportamenti attraverso comandi a distanza, determinando una dipendenza del soggetto, che diviene una persona in rete, controllata dall’esterno» [40], o anche un «pacchetto di cereali», come commentava una bambina della scuola californiana in cui è stata sperimentata di recente l’applicazione delle “etichette intelligenti” [41].
Tuttavia, tali applicazioni, tali sperimentazioni non precedono e non annunciano «quello che sta accadendo: una vera mutazione antropologica» [42], bensì ne conseguono e ne sono rese possibili. Al più, si può dire, esse rivelano una mutazione antropologica già avvenuta, e forse ne indicano la direzione. Il mutamento epocale, la mutazione antropologica – ed ontologica – è già avvenuta. Il prete precede lo scienziato. Ma, al di là della suggestione nietzscheana, si può senz’altro individuare il mutamento in un cambiamento e in un rivolgimento dell’asse ontologico avvenuto in seno alla scienza e al pensiero umano: la sostanziale equipollenza tra uomo e macchina, tra organico e artificiale. Di qui all’informazionalità totale il passo è breve: «l’”elaborazione dell’informazione” grazie al computer sta rapidamente diventando il punto principale della nostra cultura tecnologica» [43]. La cibernetica s’impone «sia come teoria unificatrice sia come uno strumento metodologico per riorganizzare il mondo intero» [44]. In questa logica unificatrice, ogni ente può essere interpretato come macchina che scambia informazioni col mondo esterno. Il dna diviene chip: «avendo capito che il dna immagazzina le informazioni in modo molto simile ai computer, Adelman capì e convinse che “si può usare il dna per calcolare”» [45].
Qui, il dna, l’organico, diviene macchina, almeno nell’accezione wieneriana di questa: «un apparecchio per convertire messaggi d’ingresso in messaggi d’uscita, [...], un trasduttore di entrare multiple in uscite multiple» [46].
In questo contesto, il corpo evidentemente diviene solo più un retaggio del passato, un’appendice insignificante e goffa. Il destino del corpo è forse quello di tramontare definitivamente, svanire nel virtuale, farsi pura informazione. Questo, sembra senz’altro il sogno della biotecnologia, la più antica aspirazione mistica, intravista nelle nuove possibilità aperte dalla scienza, promesse dal mercato. E sembra che sia una ben profonda aspirazione, se in cambio di queste, l’uomo è disposto a giocare tutte le sue possibilità di vita sulla Terra, se cioè è disposto ad una sperimentazione parossistica, i cui danni certi di oggi non sono in grado di frenare le promesse di domani. «The downright reduction of our body to a “device” does not only enhance the trend – already pointed out – towards turning it increasingly into a tool to allow continuous surveillance of individuals. Indeed, the latter are “dispossessed” of their own bodies and thereby of their own autonomy. The body ends up under others’ control.» [47]
Ma la sottrazione del corpo fa tutt’uno con la liquidazione del reale. Ritroviamo qui quell’esclusione del corpo e dell’altro, che quasi come un’accumulazione originaria, rende possibile l’immissione del reale in una logica normalizzatrice: «Col virtuale entriamo non solo nell’era della liquidazione del Reale e del Referenziale, ma in quella dello sterminio dell’Altro. È l’equivalente di una pulizia etnica che non riguarderebbe solo singole popolazioni, ma si accanirebbe contro tutte le forme di alterità. Quella della morte, che si scongiura con l’accanimento terapeutico. Quella del volto e del corpo, che si perseguita con la chirurgia estetica. Quella del mondo, che si cancella con la Realtà Virtuale. Quella di ciascuno, che si abolirà un giorno con la clonazione delle cellule individuali. E semplicemente quella dell’altro, che si sta diluendo nella comunicazione perpetua.» [48]
È evidente, allora, che qui non si tratta tanto di salvaguardare una qualche forma di “umanità”, che sia più o meno naturale. Una simile natura umana non è mai stata altro che un fraintendimento, nella migliore delle ipotesi [49]. Piuttosto, «La minaccia tecnoinformatica è quella di una soppressione del buio, della preziosa differenza fra giorno e notte, mediante un’illuminazione totale di tutti gli istanti. Prima i messaggi sfumavano su scala planetaria, con la distanza. Oggi un’insolazione mortale e una profusione accecante ci minacciano, per il feed-back incessante di tutta l’informazione su tutti i punti del globo.» [50]
In nome di una «realtà compiuta», si persegue sistematicamente – e ciecamente – l’annientamento del vuoto, lo «sterminio dell’illusione», il che è «l’equivalente dell’entropia totale» [51]. Se da un lato, dunque, la natura è imbrigliata nella logica della produzione capitalistica, «ridotta a un serbatoio di materia inerte e ad una pattumiera», per dirla con Latouche [52], in ragione del fatto di non essere «strutturata conformemente alle leggi di mercato» e quindi «può e deve essere saccheggiata e distrutta, per poi essere eventualmente ricostruita e prodotta dall’uomo conformemente a tali leggi» [53], d’altro canto, ricacciando sul versante della natura tutto ciò che non è prodotto secondo la logica positiva e fallologocentrica di quello che Baudrillard definisce fallus exchange standard, è proprio quest’entropia della realtà assoluta – e quindi la liquidazione della fondamentale alterità insita nell’illusione originaria del mondo – a mostrarsi in questa biotecnologia del reale [54]. In altre parole, la chirurgia plastica, lungi dal ripugnare per una dissacrazione di un corpo che sacro non è mai stato, non è altro che il sintomo di quella che Baudrillard chiama «chirurgia dell’alterità»: «questa liquidazione dell’Altro si accompagna a una sintesi artificiale dell’alterità, a una chirurgia estetica radicale, di cui quella del volto e del corpo non è che il sintomo.» [55]
Il corpo tecnologico, nel quale la chirurgia estetica non è che l’aspetto più appariscente, dice proprio di questa logica, di questa teleologia che sembra ispirare il percorso della ricerca umana, che nell’entropia della perfezione razionale sembra intravedere l’originaria promessa di redenzione dall’illusione del mondo. La perdita del corpo proprio, la perdita di sé, non è a questo punto che un aspetto, in qualche modo secondario, ed uno scotto minimo, che si accompagna alla liquidazione del mondo.
Diego Rossi
[1] F. Nietzsche, La Gaia Scienza, tr. it. F. Masini, Adelphi, Milano 1977, p. 30.
[2] Per un’introduzione d’ampio respiro cfr. M. T. Catena, Corpo, Guida, Napoli 2006.
[3] M. Scheler, Über Scham und Schamgefühl, in Gesammelte Werke, X, Francke, Bern 1957, p. 69: «l’uomo si sente e si sa nel profondo come un “ponte”, come un “passaggio” (Übergang) fra due ordini d’essere e d’essenza, nei quali è ugualmente e fortemente radicato, e dai quali non può separarsi neppure un momento senza perdere il suo significato di “uomo”». Cfr. anche V. Melchiorre: La corporeità come simbolo, in Corpo e persona, Marietti, Genova 1981, pp. 45 sgg.
[4] Cfr. B. Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, tr. it. A. D’Anna, Feltrinelli, Milano 2005.
[5] J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, tr. it. G. Mancuso, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 128 sg.
[6] J. Baudrillard, Simulacri e fantascienza, in P. H. Dick, I simulacri, tr. it. M. Nati, Fanucci, Roma 1998, p. 259.
[7] Cfr. U. Galimberti, Il corpo, in Opere, vol. v, Feltrinelli, Milano 2002, in particolare il primo capitolo della prima parte: Le comunità primitive e l’ambivalenza simbolica del corpo, pp. 31 sgg.; cfr. anche, dello stesso autore, Psiche e teche. L’uomo nell’età della tecnica, in Opere, vol. xii, Feltrinelli, Milano 2002.
[8] Cfr. R. Braidotti, Madri mostri e macchine, tr. it. A.M. Crispino, Manifestolibri, Roma 2005, pp. 83 sgg. E in particolare, a p. 84: «l’associazione tra femminilità e mostruosità apre la strada a una definizione peggiorativa implicita nella logica binaria degli opposti che caratterizza l’ordine discorsivo fallologocentrico. Il mostruoso come polo negativo, il polo del “meno”, è strutturalmente analogo al femminile, da che questo è assunto come “altro da” la norma in vigore, qualsiasi sia questa norma. L’effettivo contenuto preposizionale dei termini dell’opposizione è, a mio avviso, meno rilevante della sua logica». Sull’esclusione del corpo in relazione all’esclusione della donna e al dominio del patriarcato vi è un’ampia letteratura, in larga misura femminista. Molto interessante risulta R. Eisler, Il calice e la spada, tr. it. V. Mingiardi, Frassinelli 2006. Cfr. anche S. Morace, Origine donna. Dal matrismo al patriarcato, Prospettiva, Roma 1997.
[9] M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, tr. it. A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1993, p. 33.
[10] M. Foucault, op. cit., in particolare I corpi docili, pp. 14 sgg.. Cfr. anche F. Cardini, Quell’antica festa crudele, Mondadori, Milano 1995, cap. x, Controllare, delimitare, umanizzare, sugli eserciti d’età moderna, ed in particolare i riferimenti all’esercito macchina, vera ossessione di Federico II di Prussia (di cui tratta anche Foucault). Molto interessante è anche ripercorrere lo sviluppo teorico relativo all’arte bellica: si veda ad esempio il caracollo, o il «duello-carosello» che ebbero un successo – puramente teorico – tra Sei e Settecento; o ancora la teorizzazione di Giusto di Lipsia di un’«iterata ripetizione di determinati movimenti fino al raggiungimento dell’esattezza millimetrica e dell’automatismo meccanico del gesto» (p. 390) – ma i riferimenti, sotto questo riguardo, sarebbero troppi per citarli tutti.
[11] J. Baudrillard, Lo scambio simbolico, op. cit., p. 128.
[12] Sulla tecnologia, in prospettiva bioetica, cfr. M. Buiatti, Le biotecnologie, il Mulino, Bologna 2004; R. Marchesini, Bioetica e Biotecnologie. Questioni morali nell’era biotech, Apèiron, Bologna 2004. In generale, cfr. R. Lewontin, Il sogno del genoma umano e altre illusioni della scienza, tr. it. M. Sampaolo, Laterza, Roma-Bari 2004.
[13] J. Baudrillard, Simulacri e fantascienza, cit., p. 259.
[14] J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, cit., pp. 129 sgg.
[15] Cfr. in particolare M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, tr. it. A. Bonomi, Bompiani, Milano 2003; ma il concetto, ovviamente, non si limita solo a questo testo, né al solo Merleau-Ponty, che lo mutua da Husserl.
[16] A. Caronia, Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale, ShaKe, Milano 2001, p. 69.
[17] A. Pessina, Bioetica. L’uomo sperimentale, B. Mondadori, Milano 1999, cfr. in particolare il cap. 1: La perdita dell’innocenza: l’origine della bioetica.
[18] Cfr. in particolare H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, tr. it. a cura di P. Becchi, Einaudi, Torino 1997, pp. 15 sgg.
[19] G. Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, tr. it. M.A. Mori, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 11 (corsivo dell’autore).
[20] Ibid., p. 18 (corsivo dell’autore).
[21] Ibid., p. 30.
[22] Ibid., pp. 86 sg. (corsivo dell’autore).
[23] Sul legame intrinseco tra scienza e fede non è possibile dilungarsi quanto l’argomento richiederebbe. Qui è possibile soltanto fare alcuni brevi rimandi. In primo luogo, ovviamente, a F. Nietzsche, Genealogia della morale, tr. it. F. Masini, Adelphi, Milano 1993, in particolare alla iii dissertazione. Ma può essere molto utile anche il testo di J. Polkinghorne, Credere in Dio nell’età della scienza, tr. it. P. Adamo, Raffaello Cortina, Milano 2000, dove ad esempio si dice (p. 54): «Gli scienziati e i teologi di orientamento realistico hanno un importante impegno in comune: credono gli uni e gli altri che vi sia una verità da trovare, o, più modestamente, una verità cui almeno avvicinarsi», o ancora (p. 31): «Ritengo che colui che si sia messo veramente alla ricerca di una comprensione completa senza essere disposto ad accontentarsi di un risultato troppo facile e prematuro stia realmente cercando Dio, che lo riconosca o no». Scienza e religione sono intimamente accomunate da questa stessa fede in un progetto, in un disegno divino e in una verità assoluta. La differenza, certo sostanziale, tra la religione e la scienza odierna, consiste nel fatto che per la religione si tratta di una verità rivelata, data agli uomini in un preciso momento storico (le Scritture), mentre la scienza è alla ricerca di una verità da svelare. Questa discrepanza è all’origine della maggior parte degli attriti sorti tra teologi e scienziati. E tuttavia, per quanto strutturale sia la differenza, la discrepanza che ne deriva è più apparente che sostanziale.
[24] G. Anders, op. cit., p. 313.
[25] Fondamentale, in proposito, è R. Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004; e, dello stesso autore, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002. Cfr. anche AA.VV., Bios (Fata Morgana. Quadrimestrale di cinema e visioni, anno I, n° 0, Settembre-Dicembre, Pellegrini, Cosenza 2006).
[26] Ibid. p. 73.
[27] J. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, tr. it. A. Fontana, Einaudi,Torino 1975, p. 289.
[28] M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 134.
[29] Ibid., p. 110.
[30] Ibid., p. 148.
[31] Ibid., p. 170.
[32] M. Foucault, Utopie. Eterotopie, tr. it. a cura di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2006, p. 31 sgg.
[33] S. Rodotà, Adventures of Human Bodies, testo dell’intervento tenuto al workshop di Ethics of human interaction with robotic bionic and AI systems. Concepts and policies, Napoli, 17-18 ottobre 2006 (corsivo mio). Cfr. anche l’abstract pubblicato in Ethics of Human Interaction with Robotic, Bionic, and AI Systems. Concepts and Policies. Workshop. Naples, October 17-18, 2006. Book of Abstracts, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli 2006, pp. 46 sg.: «The body is getting into focus, and it is becoming the place of a transition. A manipulated body is being created. Technology is working directly on it. Surveillance is no longer implemented from the outside, for istance by means of video surveillance. [...] We are confronted with changes that have to do with the anthropological features of individual. We are confronted with a stepwise progression: from being “scrutinised” by means of video surveillance and biometric technologigies, individuals can be “modified” via the insertion of chips or “smart” tags in a context that is increasingly turning us into “networked persons” – persons who are permanently on the net, configured little by little in order to transmit and receive signals that allow tracking and profiling movements, habits, contacts, and thereby modify the meaning and contents of individuals’ autonomy». Riflessioni simili sono espresse da Rodotà anche nell’edizione aggiornata di S. Rodotà, Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione, Laterza, Roma-Bari 2004, in cui si fa evidente la pressante esigenza dell’autore di confrontarsi con queste tematiche.
[34] La libera traduzione è mia.
[35] Ibid.
[36] Su queste tematiche cfr. R. Marchesini, Post-human, Bollati Boringhieri 2004. Cfr. anche R. Terrosi, La filosofia del postumano, Costa & Nolan, Genova 1997, E. Fox Keller, Vita, scienza e cyberscienza, tr. it. S. Coyaud, Garzanti, Milano 1996
[37] E. Davies, Techgnosis. Miti, magia e misticismo nell’era dell’informazione, tr. it. M. Buonuomo, Ipermedium libri, Napoli 2001, p. 23.
[38] Ibid., pp. 28 sg.
[39] A. Kroker, M. Weinstein, Data Trash. The Theory of the Virtual Class, St. Martin, New York 1994.
[40] S. Rodotà, Etica, bioetica e diritto nell’età delle biotecnologie, in P. Amodio (a cura di), Etica, bioetica e diritto nell’età delle biotecnologie. Atti di una giornata di studio con Stefano Rodotà, Partagées, Napoli 2005, p. 33.
[41] L’episodio, riportato da S. Rodotà è contenuto in ibid., p. 175.
[42] Ibid., p. 175.
[43] J. Rifkin, Il secolo biotech. Il commercio genetico e l’inizio di una nuova era, tr. it. L. Ludica, Baldini&Castoldi Dalai, Milano 2003, p. 295.
[44] Ibid.
[45] Ibid., p. 309.
[46] N. Wiener, Dio & Golem s.p.a. Cibernetica e religione, tr. it. F. Bedarida, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 38. Sulla cibernetica cfr. anche S. J. Heims, I cibernetici, tr. it. G. Fidora, Ed. Riuniti, Roma 1994.
[47] S. Rodotà, Adventures of human body, cit.
[48] J. Baudrillard, Il delitto perfetto, tr. it. G. Piana, Raffaello Cortina, Milano 1996, p. 113
[49] Vale la pena ricordare a questo punto l’aforisma di Nietzsche sugli stoici: «volete voi vivere “secondo natura”? O nobili Stoici, quale impostura di parole! Immaginatevi un essere come la natura, dissipatrice senza misura, indifferente senza misura, senza propositi e riguardi, senza pietà e giustizia, feconda e squallida e al tempo stesso insicura, immaginatevi l’indifferenza stessa come potenza – come potreste vivere voi conformemente a questa indifferenza? Vivere – non è precisamente un voler essere diversi da quel che è natura? Vivere non è forse valutare, preferire, essere ingiusti, essere limitati, voler essere differenti? E posto che il vostro imperativo “vivere secondo natura” significhi, in fondo, lo stesso che “vivere secondo la vita” – come potreste voi non vivere così?» In conclusione, scrive Nietzsche, «il vostro orgoglio vuole prescrivere e incarnare nella natura, perfino nella natura, la vostra morale, il vostro ideale». (F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, tr. it. F. Masini, Adelphi, Milano 1993, I, Af. 9, p. 13).
[50] J. Baudrillard, Il delitto perfetto, cit., pp. 58 sg.
[51] Ibid., p. 67.
[52] S. Latouche, Il mondo ridotto a mercato, tr. it. R. Magni e M. Pellegrino, Ed. Lavoro, Roma 2000, p. 99
[53] Ibid., p. 100
[54] Su questa tematica, ed in particolare sull’imposizione dell’economia come legge indefettibile, cfr. W. Sachs (a cura di), Dizionario dello sviluppo, tr. it. A cura di A. Tarozzi, EGA, Torino 2004; G. Rist, Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale, Bollati Boringhieri, Torino 1997; A. Caillé, A. Salzano (a cura di), Quale «altra mondializzazione»?, Bollati Boringhieri, Torino 2004.
[55] J. Baudrillard, Il delitto perfetto, cit., p. 119.
Complimenti all’autore di tale trattato ed alla redazione che fornisce questi interessanti articoli.
senza parole m’inchino e mi ritiro a meditare su ciò che siamo…diventati!
Molto bello anche il video…ottimo connubio!
nik
Sono l’ideatore di una community che raccoglie circa 500 artisti e si chiama Progetto Cicero (http://progettocicero.ning.com).
Stiamo tentando un esperimento di comunicazione on-line basato sulla creazione di comunità piccole ma dotate di una forte coesione tra i membri che viene ottenuta sia con regole di comportamento (nominalità, tolleranza, proattività ed educazione) sia con la condivisione di discussioni e ragionamenti. Allo scopo di alimentare la discussione tra di noi e trarre ispirazione dalla stessa, abbiamo dato il via ad un’attività che si chiama “Quindi-Ci” http://progettocicero.ning.com/group/quindici). In soldoni, ogni 15 giorni ci diamo un tema e lo trattiamo con diversi linguaggi. In una sorta di gioco/concorso, passata la quindicina, scegliamo l’intervento più interessante. Il tema attuale è ” il corpo come laboratorio: alla ricerca di un contatto perduto”.Ti scrivo in quanto ho trovato il tuo blog ed ho pensato di invitarti ad alimentare con essa la nostra discussione nella convinzione che, quello che per te sarebbe un secondo di taglia ed incolla, per noi potrebbe essere la fonte di spunti interessanti e la possibilità di aggiungere nuove menti brillanti al nostro gruppo.Tu potresti pubblicizzare il tuoi scritti e trovare persone interessanti con cui discutere.Spero che considererai il mio messaggio come il complimento che esso è. Una cosa importante: ognuno di noi ha i suoi siti, il suo blog, i suoi spazi e non li abbandona. Il Progetto è un luogo dove discutere o presentare questi tuoi lavori (oppure semplicemente le tue idee) e non per fa alcuna concorrenza a blog siti e comunità che già li contengono.
Un saluto
Guido Mastrobuono
(Direttore del Progetto Cicero)
PS.
Coerentemente con i nostri obiettivi, per l’accesso alla comunità, richiediamo una registrazione nel sito all’indirizzo http://progettocicero.ning.com/?xgi=db6QQdU , per la quale sono richiesti i seguenti dati: Nome, Cognome, Età, Residenza ed una foto del viso.
Un articolo molto interessante, inquietante anche nella veste grafica. Analisi puntuale, interrogativi imprescindibili. Sull’argomento vorrei proporre il punto di vista del Prof. Galimberti secondo il quale la tecnica, le tecniche, non rappresentano una sovrastruttura estranea all’uomo della quale egli può giovarsi o essere costretto a subire, quanto espressione della presenza nel mondo, già precostituito e dotato di significati, dell’uomo stesso la cui libertà consiste nell’essere donatore di senso ,nell’attribuire significato alle cose. Scrive il Prof. Galimberti:a differenza di quanto accade allo spirito che con la sua libertà, che è libertà dal mondo, può spaziare nell’ambito del possibile e dell’irreale il corpo sa che venire al mondo significa per lui venire in un certo mondo già popolato di significati. Questi significati precostituiti, lungi dal limitare la sua libertà, informano che il mondo in cui il corpo nasce , è un mondo che non esiste solo per lui, ma è un mondo popolato da altri, e che è quindi già stato osservato, temporalizzato, spazializzato in quei modi e quelle forme che le tecniche collettive si limitano ad esprimere.La preesistenza di tali tecniche e il rigoroso uniformarsi all ‘unidimensionalità da esse espressa non è una prerogatva nel mondo della tecnica, ma è il volto di qualsiasi mondo storico.Chi è nato, ad esempio nell’epoca feudale non poteva abitare altro mondo che non fosse quello definito da quel rapporto tecnico tra uomo e uomo che si esprimeva nella relazione servo-signore, essendo ogni altra alternativa soppressa da quell’unica che si era realizzata. In pratica non esiste un mondo alternativo al mondo alienato, per cui, mai come oggi, il superamento dell’alienazione e la conseguente liberazione sono da cercare all’interno di questo mondo. Così le tecniche collettive sono tanto degli ostacoli per la mia libertà, quanto delle autentiche possibilità di espressione, dipende da come le scelgo, dal progetto in cui le inserisco.
Galimberti è tra i più acuti interpreti della tecnica, se non altro in Italia. Per quanto non le abbia esplicitamente citate (o forse sì, non ricordo…) in questo articolo, le sue riflessioni, tanto sulla tecnica (“Pische e Techne”), quanto sul corpo (“Il corpo”, entrambi i libri sono pubblicati da Feltrinelli), costituiscono l’orizzonte concettuale di riferimento da cui ha preso avvio la mia indagine sul rapporto tra corpo e tecnologia (che è iniziata da molto tempo e che, credo, durerà ancora per molto). Per comprendere la tecnica, proprio sulla scorta delle riflessioni di Galimberti, si deve innanzitutto riconoscere che essa non è uno strumento neutro – non è cioè qualcosa che l’uomo possa usare per questo o quel fine. La tecnica costituisce semmai il proprio dell’uomo (Heidegger parlava di “destino/destinazione” – Geschick). E su questo punto lo stesso Galimberti è molto chiaro in apertura di “Psiche e Techne”. La tecnica è dunque costitutiva dell’uomo, sin da quando, nella trasposizione mitica di un’origine perduta nella notte dei tempi, Prometeo gli donò il fuoco divino. Questo è un punto fermo – e da qui non si può proprio uscire. Faccio questa precisazione perchè non vorrei che si possa leggere, nel mio articolo, una sorta di “tecnofobia”, o quanto meno un attacco alla tecnica – come se si possa immaginare un ambito esterno ad essa. Rispetto a Galimberti (e rispetto anche allo stesso Heidegger, del resto), tuttavia, questo articolo propone uno scarto – non perchè siano in questione le sue osservazioni, quanto piuttosto perchè si confronta con un fenomeno decisamente diverso: la tecnologia, e il modo in cui essa si applica al corpo – un modo, in prima istanza, “biopolitico”. Per fare un esempio: l’aikido è una tecnica, a tutti gli effetti; la pittura è una tecnica; la musica è una tecnica; la danza è una tecnica – il servomeccanismo di un cannone d’artiglieria antiaerea è una tecnologia, un robot è una tecnologia, internet è una tecnologia. Non a caso ho citato tre esempi di tecnologia cibernetica, perchè si vede bene come il cyborg (lett. “organismo cibernetico”), ovvero in questo contesto il corpo tecnologico, sia legato ad esso. La cibernetica è l’arte del controllo (una tecnica dunque). Applicata all’uomo in qualità di tecnologia (una tecnologia, spesso, soft – cioè non necessariamente fatta di fili e metallo) diviene strumento di controllo dell’uomo. Questo dice il corpo tecnologico. Credo che sia abbastanza evidente, di per sè, la distanza che passa tra una simile tecnologia, e una tecnica come l’aikido: una forma automi, l’altra uomini.
Quanto poi alla possibilità di scelta, farei un appunto. In verità, mi sembra un’illusione quella di poter scegliere come usare una certa tecnica (tecnologia), proprio perchè la tecnica non è un semplice strumento. Non voglio dilungarmi troppo su questo punto. Però posso fare degli esempi: sono veramente libero di usare un telefonino? E soprattutto, usandolo, sono forse libero di non usarlo automaticamente come tecnologia di sorveglianza (per lo più ai miei danni)? Gli operai delle prime fabbriche della rivoluzione industriale, erano liberi? Erano forse loro protagonisti attivi di quella rivoluzione – o non ne furono piuttosto le prime vittime passive? Così oggi, quali sono le autentiche possibilità di espressione all’interno di una rete globale che appiattisce la cultura sulla cibernetica dello scambio di informazioni? Ovviamente non ci è dato scegliere il mondo in cui vivere – nè questo è necessariamente il peggior mondo possibile. Tuttavia, rispetto a quel campo d’azione che è il mondo, si può avere un duplice atteggiamento, di passiva accettazione o di creativa messa in questione. Si fa sempre distinzione tra arte e tecnica – è errato (arte vuol dire tecnica, solo che la prima deriva dal latino, la seconda dal greco). Tuttavia è indubbio che l’arte abbia, rispetto alla tecnica, quel valore eversivo di messa in questione che ne costituisce forse l’aspetto più vitale. I giapponesi hanno un’altra distinzione: al jitsu contrappongono il do. E’ la duplice via che conduce al soldato o all’uomo. Non si può credere, però, di dotarsi dello “strumento” del jitsu e di essere poi liberi di usarlo. La libertà rimane qualcosa di cui solo l’uomo può godere. Credevo che queste considerazioni fossero doverose, per cercare di specificare meglio quello che volevo esprimere in questo articolo. Ovviamente, la questione, me ne rendo conto, è tutt’altro che conclusa.
Colgo l’occasione per ringraziare la redazione e quanti hanno letto e commentato.
Diego