A.R.C.A. Tesi 2° dan: M.Luciano

Il corpo: strumento cognitivo e di apprendimento

Indice :
1) L’aikido e il pensiero di O Sensei
2) L’Occidente e la gestione del corpo in condizioni di conflitto
3) Il controllo di se stessi
4) La via dell’apprendimento come fase di realizzazione
5) Conclusione
6) Bibliografia e spunti

1) Che cosa è l’Aikido
Ai (Armonia)      Ki (Energia cosmica)      Do (Via)

L’Aikido ha assunto questo nome ufficialmente nel 1942, quando ormai la lunga fase di incubazione era giunta a compimento e la Fondazione Kobukai era stata riconosciuta dal governo giapponese. Ōsensei (翁先生), Morihei Ueshiba, già a partire almeno dal 1926 aveva infatti cominciato ad impostare una propria tecnica, il Ueshiba-ryû “Aiki-jutsu”, come evoluzione del Daitôryû Aikijujitsu che egli aveva appreso sotto la guida del maestro Sokaku Takeda, distinguendosi per l’eccezionale abilità dimostrata e ricevendo quindi il diploma di istruttore e di rappresentante della scuola Daito. L’Aikijitsu di questa scuola si distingueva per l’attenzione rivolta alle tecniche di corpo a corpo e al Suari Waza, nonché per l’applicazione in tai-jutsu delle tecniche di spada.
L’Aikijutsu di Ueshiba si caratterizzò subito per la forte componente spirituale e religiosa che il fondatore impresse alla sua scuola a partire da quello che viene ricordato come il “risveglio spirituale”, avvenuto nel 1925 in seguito ad un combattimento con un militare della marina, scettico sulla reale efficacia della difesa a mani nude contro un uomo armato. Successivamente l’Aikijutsu prese il nome di Aiki-bujutsu e quindi di Aiki-budo, finché appunto non assunse il nome definitivo di Aikido.
A quel punto la Via dell’Aiki aveva già cominciato ad attirare l’attenzione di tutto il Giappone, ricevendo apprezzamento e ammirazione da quanti giungevano all’Hombu Dojo, dove nel frattempo Ōsensei aveva stabilito il suo centro, per sperimentarne l’efficacia.
L’Aikido, in effetti, suscitò subito particolare interesse proprio in virtù dell’aspetto spirituale e della filosofia non violenta che era al cuore dell’insegnamento di Ueshiba. Significativa, peraltro, fu la decisione di Ueshiba, nel 1943, di ritirarsi definitivamente dalla vita politica del suo paese, abbandonando ogni impegno nei confronti dell’esercito e del mondo delle arti marziali per rifugiarsi nella cittadina di Iwama, dove si dedicò all’agricoltura, giungendo alla conclusione che l’Aikido fosse «la Via di tutti coloro che coltivano il grande amore per il cielo e la terra», secondo la testimonianza di Tada Hiroshi.
A partire dal secondo Dopoguerra, soprattutto grazie agli sforzi di Koichi Tohei, l’Aikido cominciò a diffondersi nel mondo, dapprima soprattutto negli Stati Uniti, dove, nelle isole Hawaii (legate storicamente all’inizio delle ostilità tra USA e Giappone), Tohei tenne nel 1953 delle dimostrazioni che suscitarono scalpore e incredulità, dando avvio ad un lungo lavoro di divulgazione da parte dello stesso Tohei in tutti gli Stati Uniti.

L’Aikido può essere definito come l’espressione fisica del principio di Unità di tutte le creature con l’Universo. Il principio di “Vittoria nell’Aiki” (Masakatsu Aiki) ovvero di “corretta vittoria” (Masakatsu, 正勝) abbraccia il concetto che non esiste un perdente se non c’è un combattimento: se infatti l’individuo riesce ad andare oltre la logica del conflitto, della dualità e della competizione è eternamente vittorioso. La corretta vittoria è dunque quella che l’aikidoka ottiene su di sé, ciò che il fondatore indicava con il concetto di agatsu (吾勝, letteralmente: “vittoria su se stessi”). Qualunque forma di attacco è dunque già di per sé una sconfitta, perché l’attaccante esce dal proprio centro sacro di invulnerabilità rompendo così l’equilibrio e l’armonia.
Questi fondamentali principi guida dell’Aikido costituiscono le basi che lo rendono un’arte marziale unica, per molti versi incredibile, che ancor oggi suscita stupore proprio in virtù di questa sua peculiare prospettiva sul conflitto: alla reale efficacia tecnica che chiunque può sperimentare si accompagna infatti un obiettivo per molti versi ambizioso sulla base di principi etici che hanno una forte carica religiosa. Più che una tecnica di difesa personale l’Aikido si configura infatti, nelle intenzioni del suo fondatore, come una “disciplina interiore” nella quale il praticante, attraverso l’esercizio e l’applicazione sistematica del principio di non resistenza, giunge a possedere un “animo che non si confronta”, ovvero ad evitare ogni conflitto in virtù di una perfetta padronanza di sé, piuttosto che di una tecnica di difesa che annichilisca l’avversario.

Per comprendere l’essenza dell’Aikido non ci sono parole migliori di quelle del suo Fondatore.
«Ai vuol dire anche amore». L’amore non può essere certo spiegato con un’etimologia, né con una metafora, perché è un sentimento troppo complesso. Ma non v’è dubbio che tutte le culture condividano, in modi diversi, lo stesso principio di base. Il nostro amore è vita, inteso come una ragione di vita, e vivere per qualcosa porta sofferenza, preoccupazione, ansia e anche tristezza, a volte. In inglese l’amore è prettamente desiderio, nella sua accezione originaria, ma il desiderio, si sa, è anch’esso sofferenza: tendere a qualcosa vuol dire cercare con tutte le proprie forze di ottenerla e questo presuppone che si debba mettere in gioco sé stessi e il proprio cuore. In giapponese o cinese, rifacendosi alla cultura buddista, la vita è sofferenza e la sofferenza è amore, come lo stesso Buddha professava: amore verso le persone e le cose. L’etimologia del termine orientale per questa parola, l’ai di cui parla O Sensei, spiega chiaramente questo concetto definito “tristezza, malinconia”, quindi sofferenza. In fin dei conti, non è dissimile, come tanti studiosi spesso affermano, dal nostro principio cristiano e dal principio base di altre culture
In questa prospettiva, conseguentemente, O Sensei affermava: «L’Aiki non è una tecnica per combattere o vincere il nemico. È il mezzo per riconciliare il mondo e riunire gli esseri umani in una sola famiglia». Per questo «Il segreto dell’Aikido sta nell’armonizzarsi con il movimento dell’universo stesso». E ancora: «Chi ha scoperto il segreto dell’Aikido ha l’universo dentro di sé e può dire: “Io sono l’universo”».
È da questa filosofia che nasce il principio della Masakatsu: «Non vengo mai sconfitto, quale che sia la velocità d’attacco del nemico». Infatti «non è la mia tecnica ad essere più rapida della sua, non è una questione di velocità. Il combattimento è terminato prima di incominciare». Il combattimento termina prima ancora di cominciare proprio in virtù di quella agatsu di cui si diceva: ciò cui mira, ovvero ciò cui dovrebbe mirare, l’aikidoka non è il perfezionamento e l’affinamento di una tecnica per essere più veloci dell’avversario, bensì deve superare la miope distinzione tra sé ed altro, e dunque anche tra sé ed avversario, per accogliere l’universo dentro di sé. In questo senso, allora, la sfida è unicamente con se stessi.
Ed è per questo che O Sensei afferma anche: «Quando un nemico mi vuole sconfiggere, deve innanzitutto spezzare l’armonia dell’universo. Dunque, nel momento stesso in cui ha l’intenzione di battersi con me, egli è già sconfitto».
In Aikido, dunque, secondo la visione che ne aveva il fondatore, non esiste alcuna contrapposizione, e dunque non esiste nemmeno alcun combattimento: «Non esiste alcuna misura di tempo, rapido o lento. L’Aikido è la non-resistenza. Dato che è non resistenza, essa è sempre vittoriosa». Viceversa: «Chi ha uno spirito pervertito, uno spirito bellicoso, è sconfitto fin dall’inizio», a prescindere dalla tecnica che vorrà applicare e anche dalla perizia con la quale potrà applicarla.
Si tratta dunque, sostiene Ueshiba, di rettificare il proprio spirito, per perseguire l’agatsu e infine la Masakatsu: «Allora, come potete rettificare il vostro spirito pervertito, purificare il cuore ed essere in armonia con l’attività di tutte le cose della natura? Per prima cosa, dovete far vostro il cuore di Dio. È un grande Amore onnipresente in ogni luogo e in ogni tempo». Questo è il senso dell’ai nell’Aikido, ovvero armonia, amore, comunione: «Quando esiste l’amore non vi è disaccordo né nemici. Chi non è d’accordo con ciò non può essere in armonia con la natura e l’universo. Il suo Budo è quello della distruzione. Non è Budo». Il Budo, la Via tracciata dall’Aikido di O Sensei, dunque, «non è misurarsi, vincere o perdere. Esso non conosce la sconfitta. Vincere vuol dire vincere sullo spirito di disaccordo». Ancor più direttamente: «Non c’è avversario né nemico. Avete torto se pensate che il Budo significhi avere avversari e nemici, essere forti e abbatterli. Il vero Budo è l’unione con l’universo».
Si ritorna così a quel principio che, si può dire, è universale, all’amore che è in fondo null’altro che armonia: «Nell’Aikido bisogna volere la pace fra tutti gli esseri umani, non desiderare di essere forti e nemmeno allenarsi solo per battere un avversario». Per questo O Sensei dichiara che l’Aikido non si ispira a nessuna religione in particolare. Anzi, in virtù di questa universalità dell’ai, può addirittura ribaltare il rapporto tra l’Aikido e la religione: «Quando qualcuno mi chiede se i principi del mio Budo si ispirino alla religione, rispondo di no. I principi del mio Budo illuminano le religioni e aprono loro la via».
In conclusione, il fine dell’Aikido consiste nell’«essere calmi in qualunque circostanza ci si trovi ad attaccare. Non avere alcun attaccamento alla vita né desiderio della morte ed avere uno spirito libero, non solo quando si è attaccati ma anche nella propria vita quotidiana».

2) L’Occidente e la gestione del corpo in condizioni di conflitto
Questi, sinteticamente, i principi dell’Aikido, secondo le stesse parole di O Sensei. Tali principi, per quanto universali, risultano molto lontani dal nostro modo di vedere le cose nella vita quotidiana. Rispetto a questi elementi, di particolare importanza appare la relazione mente-corpo.
In Occidente la relazione col proprio corpo è sempre stata duale. Per la cultura occidentale, a partire almeno dall’antica filosofia greca, l’essere umano è diviso tra una parte spirituale, o mentale, ed una materiale, il corpo. “Corpo” infatti non vuol dire altro che qualcosa di esteso, cioè un oggetto situato nello spazio, dotato di materia. Già in questo si può vedere un’opposizione con il “soggetto”, col quale noi occidentali ci identifichiamo.
Sebbene nell’antica Grecia non esistesse ancora un concetto come quello di “soggetto”, che caratterizza invece la filosofia e la cultura europea a partire dall’inizio dell’età moderna, è possibile scorgere già lì il principio della distinzione tra corpo e anima, nella filosofia di Platone in particolare, che distingueva un’anima immortale, la psyché, dalle spoglie mortali, il soma, che rappresentano una sorta di prigione, o una “caverna”, nella quale l’anima è calata.

Anche la concezione ebraica dell’uomo, e quindi quella cristiana, è fortemente dualistica: Dio creò il corpo di Adamo dal fango e poi gli infuse la ruah, l’anima. Per questo lo creò a sua immagine e somiglianza, altrimenti l’uomo non sarebbe stato altro che una forma d’argilla priva di vita, un “golem”. Infatti il testo ebraico parla proprio di un golem per descrivere la materia con la quale fu fatto Adamo.

È in queste antiche concezioni che affondano le radici delle nostre idee sull’uomo. La stessa idea di un’opposizione tra soggetto e oggetto, tipicamente occidentale, trova in questa visione dell’uomo la sua spiegazione. Queste idee sono così radicate nella nostra cultura che facciamo anche fatica a renderci conto del fatto che sono delle idee: il più delle volte noi pensiamo che le cose stiano semplicemente così. La nostra cultura è interamente strutturata su questo dualismo. Nella vita quotidiana, ad esempio, dimostriamo di avere un rapporto col nostro corpo in tutto simile a quello che abbiamo con la nostra auto: andiamo dal medico come se andassimo dal meccanico, “ripariamo” il corpo con interventi chirurgici o lo abbelliamo con la chirurgia estetica e la palestra, proprio come quando portiamo la macchina dal carrozziere.

Anche la nostra medicina si è interamente sviluppata in base a questi principi: come dice Galimberti, in “Il corpo”, la medicina considera il corpo a partire dal cadavere. Studia, attraverso la vivisezione, solo corpi morti, cioè la parte “meccanica” dell’uomo. Allo psicologo, invece, è lasciato lo studio della parte spirituale, ovvero della “psiche”: la mente, i pensieri, i sentimenti etc. rientrano nella sfera di quella che Cartesio chiamò «res cogitans», in netto contrasto con la res extensa, ovvero appunto il corpo, la parte estesa, cioè materiale, che, come Cartesio la intendeva e come ancora oggi viene per lo più intesa, sarebbe inerte, inanimata, meccanica.

Solo negli ultimi tempi, nel corso del Novecento, si è cominciato a mettere in discussione tutto questo: in filosofia, innanzitutto, con la fenomenologia e l’esistenzialismo; in psicologia, dove diversi discepoli di Freud hanno cominciato a rendersi conto di quanto siano intrecciati i fatti della psiche e quelli del corpo, fino a fondare delle scuole come la bioenergetica di Reich o la psicologia transpersonale che tentano di superare definitivamente il dualismo; in medicina, anche, dove ci si rende conto sempre più dell’imprescindibile unità di mente e corpo e dell’importanza del benessere psico-fisico nei processi di guarigione e nel prevenire la malattia. Anche il crescente interesse scientifico verso forme di medicina “alternative”, come l’agopuntura o la medicina tradizionale cinese, e la legittimazione istituzionale che queste pratiche hanno di recente ottenuto anche in Italia, dimostrano che il paradigma scientifico occidentale si sta evolvendo, cercando di superare una visione troppo ristretta dell’uomo e della natura, aprendosi in particolare all’antichissima cultura orientale.

In Oriente, infatti, il dualismo tra corpo e mente non è mai stato così forte come da noi e anzi i pensatori e gli scienziati orientali hanno sempre indicato nel superamento del dualismo la via per la saggezza e per il benessere. Non che in Oriente non sia presente un’idea dell’uomo simile a quella occidentale, ma appunto questa idea è proprio ciò che viene indicata in molti casi come l’origine del male, di un pervertimento, come direbbe O Sensei, o di un malessere psico-fisico.
Questo discorso, se vale per la scienza e la filosofia, vale tanto più nella strategia e nelle arti marziali. L’Occidente, in conseguenza della sua radicata visione dell’uomo, ha sviluppato un tipo di strategia bellica molto diverso dalla strategia orientale.

C’è una somiglianza fortissima tra la gestione delle situazioni di conflitto e le forme di cura tipiche della medicina allopatica (la nostra medicina tradizionale, che identifica la malattia dai sintomi): in entrambi i casi, infatti, la cultura occidentale vede un “nemico” esterno da cui difendersi ed eventualmente da attaccare ed eliminare. La medicina allopatica fa ricorso dunque a degli strumenti esterni che sono usati come delle “armi” per contrastare, sopire oppure sradicare un nemico esterno causa della malattia: un germe, un batterio, un virus. Allo stesso modo, la guerra è concepita come lo scontro tra due nemici che tentano di sottomettersi o eliminarsi vicendevolmente. Il conflitto, pertanto, è gestito con il rafforzamento di proprie armi difensive e offensive, che proprio come il “nemico” che ci attacca, provengono dall’esterno. Si tratta insomma di un soggetto che deve difendersi da un oggetto, un nemico esterno, esattamente come nella medicina.

Di conseguenza, l’arte della guerra occidentale ha fatto sempre affidamento innanzitutto sullo sviluppo di sempre migliori tecnologie, proprio come la cura delle malattie ha sempre fatto affidamento sullo sviluppo della farmacologia: lo sviluppo delle armature durante tutto il corso del Medioevo e fino all’età moderna inoltrata testimonia di questo rafforzamento progressivo delle barriere difensive, interrotto soltanto dallo sviluppo delle armi da fuoco che ha di fatto reso inutile qualsiasi armatura di metallo. Uno sviluppo, del resto, parallelo a quello delle fortificazioni, e che non si è veramente arrestato nemmeno in seguito alle armi da fuoco: il kevlar, i carri armati, i vetri antiproiettili, i bunker ecc. sono altrettante risposte allo sviluppo delle tecnologie d’attacco.

La scherma medievale è tutta orientata in questo senso: a differenza di quanto si creda correntemente la spada a doppia lama del cavaliere non era pensata tanto per tagliare, ma veniva adoperata quasi come un’arma da botta contro scudi e armature. Era micidiale contro un uomo disarmato, ma poco “efficace” contro le armature dei cavalieri: questo perché i duelli tra pari si svolgevano attraverso un “botta e risposta” che mirava a fiaccare la resistenza dell’avversario, più che a penetrarne le difese. I cavalieri, armati di spada e scudo, si davano colpi sullo scudo o sull’elmo fino a quando uno dei due non fosse caduto per stanchezza: il più delle volte si trattava di resistere alla mancanza d’aria dovuta all’elmo e aumentata dallo sforzo fisico.

Un puro scontro di forza, insomma. Del resto, era considerato indecente che si spargesse il sangue di un nobile cristiano: pertanto le battaglie e i duelli medievali erano molto meno cruenti di quanto si pensi e spesso le morti avvenivano a causa di veri e propri incidenti. Altre erano le armi pensate per uccidere: mazze chiodate, mazzafrusti, martelli, frecce e quadrelli, soprattutto picche, forconi e armi lunghe in genere, più adatte a spaccare e perforare le pesanti armature dei cavalieri. Armi utilizzate soprattutto dalla plebe contro i nobili cavalieri, come la micidiale alabarda, che univa la picca utile a disarcionare e l’ascia per macellare il cavaliere caduto, invenzione delle milizie cittadine per combattere gli eserciti imperiali.

Questa stessa strategia veniva adoperata negli assedi, che il più delle volte erano lontanissimi da quegli epici assalti cui ci ha abituati il cinema hollywoodiano: nella realtà, l’assedio seguiva lo stesso andamento del duello, limitandosi a circondare le mura del castello in attesa che la popolazione, sfinita, si arrendesse. Di tanto in tanto, gli assediati tentavano una “sortita” (dal francese sortie, uscita) per cercare di forzare l’embargo e solo in rari casi gli attaccanti si gettavano in una pericolosa scalata alle mura. L’idea era di fatto sempre la stessa: rafforzarsi e chiudersi in difesa, in attesa di poter sferrare un colpo; oppure, nel caso dell’aggressore, assediare l’avversario e fiaccarne le difese in attesa della resa, eventualmente approfittando di una breccia per penetrare nel punto debole.

Questo stesso tipo di strategia, a ben vedere, si ritrova in tutta la storia dell’arte bellica occidentale, fino ad oggi ed anche in discipline sportive come la boxe: anche in questo caso si tratta di trincerarsi dietro una guardia nel tentativo di non lasciare spazi alle aggressioni dell’avversario e in attesa di poter sferrare un colpo che penetri nelle difese nemiche. Il corpo è come una cittadella da fortificare attraverso l’allenamento affinché possa resistere il più a lungo possibile e affinché possa sferrare attacchi abbastanza efficaci. Come nei duelli medievali, anche nella boxe non si mira a uccidere l’avversario ma a stancarlo fino al ko. È una gara di resistenza, innanzitutto.

E questo tipo di strategia, probabilmente, non si esaurisce nelle arti marziali e belliche ma struttura interamente la cultura occidentale. Il corpo è una macchina (eventualmente una macchina bellica) da rinforzare attraverso diverse tecniche e diverse tecnologie per poter affrontare via via le più disparate situazioni di conflitto che si presentano nella vita quotidiana. Tali tecniche possono essere esercizi fisici, ginnici o meno, procedure e pratiche manuali, competenze e anche conoscenze, come dimostra il proliferare di corsi di formazione e master volti all’ottenimento di specifici “pacchetti” per armarsi al meglio nella jungla del lavoro, per poter essere sempre “competitivi”. Le tecnologie, invece, vanno dalle vitamine che prendono i nostri ragazzi per “crescere sani” e affrontare con energia la vita quotidiana, alle tecnologie virtuali, navigatori e bluetooth, che ci potenziano e ci rendono sempre wired.

Il più delle volte, le diverse arti marziali hanno lo stesso scopo: apprendere un pacchetto di conoscenze, una tecnica, che ci faccia sentire sicuri nella jungla metropolitana. E così pure lo yoga e le varie tecniche di meditazione orientali, concepite in Occidente per lo più in maniera utilitaristica, cioè allo scopo di rilassarsi ed essere più calmi e sereni nell’affrontare le sfide della vita. Un’arma più sottile, certamente, ma un’arma, in ogni caso. Lo stesso discorso vale spesso, purtroppo, anche per l’Aikido.
L’uomo occidentale è sempre in guerra.

3) Il controllo di se stessi.
Quando scoppia una situazione di conflitto, ovviamente il controllo di sé è fondamentale per la gestione e la risoluzione di tale conflitto. Evitare di farsi prendere dal panico e mantenere la giusta lucidità sono universalmente considerati fattori decisivi per uscire quantomeno indenni, se non vittoriosi, da ogni situazione del genere, non solo nello scontro bellico.

Un conflitto può essere considerato come la rottura di un equilibrio e la successiva ricerca di un nuovo equilibrio: in uno scontro tra due persone, di solito, chi attacca lo fa per “costringere” l’altro ad accettare una nuova condizione di equilibrio, presumibilmente a tutto vantaggio dell’aggressore e a scapito del difensore. Questa situazione, in cui manca appunto un equilibrio, è avvertita come pericolosa e particolarmente drammatica da tutti i partecipanti al conflitto. Si tratta di una situazione molto delicata, perché non si può mai sapere in anticipo quale sarà il nuovo equilibrio. In altre parole, per quanto si possa scommettere su chi sarà il più forte, non è mai possibile avere una certezza assoluta sul “vincitore” di un conflitto.

E proprio come quando si perde l’equilibrio, il nostro corpo reagisce a queste crisi attraverso il fenomeno dello stress: gola stretta, collo teso, respirazione superficiale, ritmo cardiaco accelerato, sono tutti sintomi universali dello stress e sono presenti tanto negli uomini quanto negli animali. Questi fenomeni fisiologici servono a rendere l’organismo particolarmente reattivo e a rispondere in maniera immediata ad una minaccia. Sono un rilascio di energia fondamentale che però, spesso, ci coglie del tutto impreparati. Succede allora che la paura ci “paralizzi”, oppure che ci faccia reagire in maniera impropria. Di solito questo accade proprio perché ci abituiamo per anni a non avere alcuna familiarità col nostro stesso corpo, e quando, in una situazione di pericolo, l’organismo si organizza naturalmente e automaticamente, siamo colti alla sprovvista: sentiamo di “perdere il controllo” del nostro corpo, come una macchina che slitti sull’asfalto bagnato.

La tipica risposta occidentale a questa incapacità di mantenere il controllo della situazione è quella di “prepararsi” al meglio: l’allenamento e l’esercizio servono in questo caso ad “abituarci” alle situazioni di stress. Molte delle discipline marziali praticate in Occidente prevedono appunto un allenamento costante in situazione di stress: cerchiamo di abituarci a dominare la paura e le nostre reazioni, di non “perdere la testa” quando siamo aggrediti, imparando a gestire le risposte del corpo anche in assenza di ossigenazione, e soprattutto di allenare i muscoli perché rispondano sempre a dovere.

Più che avere il controllo di noi stessi, cerchiamo di mantenere un controllo costante su noi stessi e su ciò che ci circonda.
L’Oriente ha sempre avuto un atteggiamento radicalmente diverso, invece. Le tecnologie belliche, a cominciare dalle armature, ne sono una prima testimonianza: la leggerezza delle armi e delle armature orientali, infatti, è funzionale ad una libertà di movimenti che gli orientali percepiscono come fondamentale, di gran lunga più importante della difesa costituita dal metallo. Le stesse armature dei samurai erano indossate solo in battaglie campali ed erano concepite più per difendersi dalle frecce vaganti che come protezione contro katana e naginata. Nei duelli, invece, fluidità e velocità sono tutto. Appesantirsi con ingombranti armature sarebbe come strozzare il flusso vitale: strangolarsi da soli.

Certo, non bisogna cadere nell’ingenuità di credere che in Oriente tutti, da sempre, concepiscano l’arte marziale come la concepiva O Sensei. Anzi, è indubbio che i monaci zen abbiano faticato non poco a introdurre i pacifici principi del buddismo nel Giappone feudale e sanguinario dei samurai. Evidentemente, però, c’è una differenza di accenti, rispetto all’Occidente, che risale per lo meno alla Cina taoista e ai trattati di Sun-tzu e che ha reso possibile, nel corso dei secoli, accumulare una sapienza e una profondità di riflessione che va in direzione diametralmente opposta allo sviluppo occidentale.

La chiave per comprendere questa differenza è nel concetto fondamentale di “mente vuota”, contrapposto al nostro self-control: «se tu non ti fondi con la vacuità del Puro Vuoto, non conoscerai mai l’Aikido», diceva Ueshiba. Ma già Takuan scriveva: «La Non-Mente è pari alla Mente Corretta. Non si congela e non si fissa in un punto. Si definisce Non-Mente quando non esistono pensieri e discriminazioni e la mente vaga libera nel corpo, permeando completamente il sé». In entrambi i casi, si tratta di non concentrare mai l’attenzione su un solo punto, né di voler a tutti i costi ottenere un certo scopo. La mente vuota (Mu Shin) indica questa assoluta flessibilità e questa assenza di volontà che fanno letteralmente a pugni con il nostro tentativo di mantenere la situazione sotto controllo: la mente vuota è piuttosto un controllo senza controllo, molto simile ai principi del taoismo. Sotto questo aspetto, Ueshiba non fa che portare, con l’Aikido, al massimo grado possibile questi antichi precetti tipicamente orientali.

L’Aikido non prevede un allenamento in vista della “difesa personale”, né è una tecnica più sottile per ottenere ragione dell’avversario. Il controllo di sé presente nella pratica dell’Aikido dovrebbe invece essere concepito come una fusione totale con l’intero sé, secondo le indicazioni di Takuan. Dice infatti Takuan: «Se si pone la mente nell’azione del corpo dell’avversario, la mente ne sarà soggiogata. Se si pone la mente nella spada dell’avversario, la mente ne sarà soggiogata. Se si pone la mente nel pensiero di quali saranno le intenzioni dell’avversario che sta per colpirci, la mente ne sarà soggiogata. Se si pone la mente nella propria spada, la mente ne sarà soggiogata. Se si pone la mente nella posizione del corpo dell’avversario, la mente ne sarà soggiogata».

A ben guardare, è proprio ciò che succede quando cerchiamo di parare un colpo: è il fatto di voler parare che ci fa diventare automaticamente bersaglio dell’avversario. Per questo Ueshiba affermava: «Non fissate gli occhi del vostro avversario, poiché il vostro spirito ne verrà attratto, non guardate la sua spada, poiché questa vi abbatterà, non osservate colui che vi affronta altrimenti il vostro spirito ne sarà distratto»
(http://www.kokyukai.it/paginestatiche/riflessioniarticoli/insegnamentoOSensei.htm ).

Il principio fondamentale dell’Aikido è tutto racchiuso nell’idea che, per quanto paradossale possa sembrare, se non mi difendo, allora non posso nemmeno essere attaccato: «Dal momento che non resiste mai, l’Aikido è sempre vittorioso». Si tratta di un precetto, come si vede, che stravolge completamente la tipica strategia occidentale: invece di rafforzarsi e di aumentare il proprio armamento offensivo e difensivo, Ueshiba ci invita al totale disarmo. Invece di un controllo totale della situazione, l’Aikido propone una totale assenza di controllo.

Proprio a partire dall’idea dell’equilibrio, Ueshiba suggerisce di concepire l’eventuale aggressore non come un nemico da combattere ma semplicemente come una persona che ha rotto l’armonia dell’universo. Sotto questo aspetto, dunque, si tratta “soltanto” di ristabilire l’armonia perduta: ogni aggressore è già sconfitto prima ancora di iniziare qualunque scontro.

Il controllo di sé non si ottiene attraverso una tecnica particolare né con un certo tipo di allenamento, ma è il risultato di quell’identificazione tra l’unità psicofisica e l’universo. Per questo è solo impropriamente che si può considerare l’Aikido un’arte marziale: «AIKI non è una tecnica destinata a combattere o a vincere un nemico. È il mezzo per riconciliare il mondo in un’unica famiglia». Sotto quest’aspetto, dunque, l’Aikido si avvicina più a una forma di meditazione dinamica che non a un’arte marziale intesa in modo classico: è una via (DO) per l’espansione del sé, ovvero per l’armonizzazione dell’unità psicofisica (AI-KI), con l’universo.

In questo percorso, la tappa fondamentale è probabilmente costituita dall’unione mente-corpo: si tratta innanzitutto di superare il dualismo tutto occidentale per recuperare un’integrità psicofisica completa che ci metta in ascolto dell’universo e in armonia col mondo che ci circonda, superando a poco a poco tutte le barriere che sono create soprattutto dalla nostra mente. A cominciare dalla barriera io-tu, che diventa aggressore-aggredito nel caso dello scontro fisico.
L’allenamento sul tatami, per un aikidoka, dovrebbe quindi innanzitutto passare attraverso questa armonizzazione psico-fisica e non tanto mirare ad un progressivo perfezionamento di questa o quella tecnica.

4) La via dell’apprendimento come fase di realizzazione
L’Aikido dunque si propone come una via per il superamento delle barriere e per l’armonizzazione con l’universo: il dualismo mente/corpo, la prima barriera; poi la distinzione io/altri; infine la barriera che separa il sé dall’universo. In qualche modo, segue gli stessi principi e si prefigge gli stessi scopi della psicologia transpersonale o dello zen (la psicologia transpersonale è una scuola di psicologia sorta in America per l’iniziativa di Abraham Maslow e poi codificata da Roberto Assagioli che introduce i principi del buddismo zen in psicologia e che mira precisamente alla progressiva riunificazione del sé con il cosmo, prevedendo un’ascensione graduale della consapevolezza nel superamento dell’ego). È una via che mira all’illuminazione, un percorso di crescente consapevolezza. La situazione conflittuale diventa dunque un pretesto per ricollocare la mente nel corpo, per costringersi a mettere in discussione la normale visione dualistica delle cose e per cominciare un percorso che miri a superare ogni conflittualità. Non a caso l’Aikido bandisce ogni forma di competizione.

Nell’Aikido non si tratta di superare le difese dell’avversario o di scongiurarne gli attacchi, né in generale di vincere. Si tratta invece di superare, a poco a poco, le nostre stesse barriere e paure, liberandoci via via di tutte quelle sovrastrutture che ci costruiamo e che ci vincolano, imprigionandoci nella convinzione di poterci così proteggere dall’esterno. Attraverso il rapporto tra uke e tori ci è invece possibile, poco per volta, renderci conto dell’importanza di aprirci all’esterno, piuttosto che chiuderci in noi stessi e nelle nostre barriere difensive. La stessa reciprocità tra le due figure impone che ognuno, a qualunque livello pratichi, debba conoscere sia la condizione dell’uke sia quella del tori, senza potersi identificare mai con un semplice esecutore di tecniche.

La percezione del proprio corpo è l’impatto più duro per i praticanti di Aikido alle prime esperienze. E uno degli scogli più difficili da superare è proprio la concezione del proprio corpo come una macchina da controllare dall’esterno, dovendo pensare in continuazione a dove posizionare i piedi, come alzare le braccia e quale postura assumere. Si pensa inizialmente di dover memorizzare gli schemi motori delle singole tecniche e cercare poi di applicarli nel miglior modo possibile. A poco a poco, le tecniche stesse costringono a rivedere completamente questa impostazione, per liberarsi completamente dagli schemi e dalle proiezioni mentali. Svuotare la mente, appunto, per situarsi completamente nell’azione. Fondersi con l’evento e superare poi, attraverso questa fusione, anche la barriera tra uke e tori, per raggiungere un’unità armonica con l’uke e col mondo che ci circonda. Infine, con l’universo.

5) Conclusioni
Dopo aver navigato nei meandri dell’approccio e delle filosofie occidentali ed aver tentato un confronto con le concezioni orientali, posso solo evidenziare come i principi fondanti di questa nobile Arte Marziale, che trovano la migliore descrizione nelle parole del suo fondatore, siano la base di partenza ma anche di arrivo di un lungo percorso di accrescimento fisico, ma soprattutto psicologico e spirituale. Per perseguire i principi spirituali di armonizzazione col modo e con l’universo il corpo deve diventare necessariamente lo strumento essenziale ed indispensabile della propria pratica di Aikido ma anche, probabilmente, nella vita quotidiana. Esso dunque diventa uno strumento cognitivo e di apprendimento necessario per il raggiungimento dell’armonia, tanto sul piano personale quanto su quello transpersonale.

6) Bibliografia e spunti
Branno, F., tesi esame 4° dan.
Capra, F., Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente, trad. it. di L. Sossio, Milano 2007.
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Rossi, D., Il corpo ingannato tra metafisica e tecnologia, Napoli 2005 (tesi di laurea).
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Takuan, S., Sogni. Scritti di un Maestro Zen a un Maestro di Spada, trad. it. di P. Gonella, Milano 1995.
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https://www.aikidoedintorni.com. Sito di riferimento.



One Comment

  1. Giacomo wrote:

    Lavoro molto interessante, ben articolato e ricco di spunti da approfondire. Ma nella vostra scuola a secondo dan si presenta una tesi?.

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