Storia dello Judo

 L’origine delle arti marziali si perde nella notte dei tempi ma il loro sensazionale sviluppo in Asia si ebbe grazie alla fusione con i principi del buddismo indiano e del taoismo cinese. La tradizione ci rimanda a BODHIDHARMA (Ta-Mo in cinese, Daruma in giapponese), monaco indiano che nel 520 d.c. andò in Cina per diffondere il buddismo.

Soggiornò molti anni nel monastero di SHAOLIN (Shorinji in giapponese), il cui nome significava “giovane foresta”, ai piedi dei monti Sung-Shan, nella provincia di Honan. Qui fondò una scuola impostata sulla meditazione: Dhyana in sanscrito, Chan in cinese, Zen in giapponese. Viste le non buone condizioni fisiche dei monaci, insegnò loro degli esercizi di respirazione e di ginnastica e, secondo la leggenda, anche delle tecniche di combattimento a mani nude, che col tempo furono arricchite e perfezionate sotto la generica denominazione di WUSHU, ossia “arti marziali” (bujitsu in giapponese).

I tantissimi stili di wushu si sono sviluppati lungo due direttrici.

La prima prende il nome di WEI-CHIA e comprende gli stili “esteriori” o “duri” di lotta, che si fondano sull’uso della forza in linea retta. La seconda direttrice è la NEI-CHIA e comprende gli stili “interiori” o “morbidi”, che sviluppano il concetto di WU-WEI, solitamente tradotto con “non azione”, ma sarebbe meglio dire “non ingerenza”: rappresenta la capacità di dominare le circostanze senza opporvisi, arrivando a sconfiggere un avversario cedendo apparentemente al suo assalto per neutralizzarlo con movimenti circolari e rivolgere contro di lui la sua stessa forza.Gli stili duri, che facevano capo al tempio buddista di Shaolin, a Okinawa generarono il KARATE, diffuso in Giappone da GICHIN FUNAKOSHI (1868-1957).

Gli stili morbidi, che facevano capo al tempio taoista di wutang, in Giappone generarono il JU-JUTSU, da cui sono derivati il JUDO di JIGORO KANO (1860-1938) e l’ AIKIDO di MORIHEI UESHIBA 1883-1969).

Il NIHON SHOKI o NIHONJI (cronaca del Giappone, compilata nel 720 d.c.) riferisce che già nel 230 a.c. ebbero luogo pubbliche competizioni di forza, che servivano anche a selezionare gli uomini più vigorosi, destinati alla guardia imperiale o alla formazione di corpi speciali. Il più famoso incontro di lotta che si ricordi fu quello combattuto davanti all’imperatore Suinin (29 a.c.-70 d.c.) da Taima-no-Kuyehaya e Nomi-no-Sukune, che uccise l’avversario spezzandogli la schiena. Il vincitore ricevette onori e ricchezze, nonchè l’incarico di regolamentare il suo efficacissimo metodo di lotta per renderlo meno pericoloso.Nomi-no-Sukune selezionò allora 48 colpi (12 riguardavano la testa, 12 il tronco, 12 le mani e 12 le gambe) e chiamò SUMO il nuovo stile.Da una forma di combattimento primitivo e cruento (chikara-kurabe), il sumo progredì verso una forma di addestramento militare, fino a divenire un vero e proprio rito durante le raffinate epoche Nara ed Heian, imbevute di cultura cinese: l’imperatore Shomu (724-740), infatti, lo incluse tra i giochi della Festa di Ringraziamento per il raccolto. L’importanza del sumo fu veramente grande, visto che nell’858 Korehito e Koretaka, figli dell’imperatore Montoku, arrivarono a disputarsi il trono con un incontro di lotta tra i loro campioni Yoshiro e Natora.

I primi lottatori professionisti si esibirono a Edo nel 1623. Nonostante qualche dimostrazione all’estero, il sumo ha sempre avuto un carattere esclusivamente nazionale ed ancora oggi gli incontri si svolgono secondo l’antico cerimoniale, compreso il propiziatorio lancio di sale sulla pedana. Dal Giappone si è invece diffuso in tutto il mondo il Ju-jutsu, o “arte della flessibilità” le cui origini si perdono nelle leggende. La più nota racconta che intorno alla metà del ’500 un medico di Nagasaki, SHIROBEI AKIYAMA, si recò in Cina per approfondire le sue cognizioni sui metodi di rianimazione, che presupponevano una perfetta conoscenza dei punti vitali del corpo umano. Akiyama, uomo di moltiforme ingegno, approfittò del soggiorno nel continente per studiare anche il taoismo e le arti marziali cinesi. Tornato in patria, durante un periodo di meditazione notò che i rami più robusti degli alberi si spezzavano sotto il peso della neve, mentre quelli di un salice si piegavano flessuosi fino a scrollarsi del peso, per riprendere poi la posizione senza aver subito danni. Applicando alle tecniche di lotte apprese in Cina le considerazioni maturate sulla cedevolezza o “non resistenza”, fondò la scuola YOSHIN (del “cuore di salice”).Non è questa la sede per trattare del taoismo, ma va evidenziato che alla sua base stanno i due principi complementari e contrapposti YANG e YIN, l’aspetto positivo e negativo dell’universo: nessuno dei due può esistere senza l’altro. Nel mondo tutto è in perpetua mutazione tra questi due poli attraverso combinazioni dinamiche. Lo yang rappresenta la durezza e l’attacco, lo yin la morbidezza e la difesa.

Dal TAO-TE-CHING, il testo cinese attribuito a Lao-tzu, mi preme citare alcune massime di grande importanza per il nostro studio:-Il più cedevole nel mondo/Vince il più duro.

-L’uomo nasce debole e delicato/Muore rigido e duro[...]/Così: rigido e robusto sono i modi della morte/Debole e flessibile sono i modi della vita.

-La massima del buon combattente è: Assecondare per mantenere l’iniziativa . Vince colui che lascia.

Le molte scuole di ju-jutsu, pur con diverse sfumature, fecero proprio questo fondamentale concetto, che rivoluzionò la maniera di lottare: la morbidezza può vincere la forza. Va inoltre sottolineato che “ai livelli più alti delle arti marziali, il punto più importante di tutte queste strategie sta nello sviluppare una sensibilità intuitiva verso le leggi dell’universo. Lo scopo più profondo non è semplicemente sconfiggere gli avversari, ma giungere al “modo” (“Do” o “Tao”), che è il modo in cui funziona l’universo” (Payne). Il ju-jutsu si sviluppò sotto nomi diversi a seconda del gruppo di tecniche che si preferiva approfondire (proiezioni, immobilizzazioni, percussioni, ecc.), raggiungendo il massimo splendore durante il lungo periodo di pace instaurato da Ieyasu Tokugawa dopo la battaglia di Segikahara (1603) e la conquista del castello di Osaka (1615). La fine delle guerre civili che avevano insanguinato il Giappone dal XII secolo, interrotte soltanto per respingere le invasioni mongole di Kublai Khan, lasciò disoccupati migliaia di SAMURAI, che divennero perciò RONIN (“uomini onda”, ossia guerrieri senza padrone). Molti di loro pensarono quindi di mettere a frutto quanto avevano appreso sui campi di battaglia, raccogliendo e perfezionando le tecniche di combattimento senz’armi ereditate dal passato. e mentre in precedenza esistevano solo scuole private ad uso dei grandi clan, ognuno dei quali elaborava e tramandava al suo interno colpi di particolare efficacia, sorsero allora scuole di bujitsu (arti marziali) aperte a tutti. L’uso strategico del corpo umano  raggiunse livelli sbalorditivi di efficenza. Due secoli e mezzo di pace durante lo shogunato Tokugawa furono possibili grazie a un rigoroso controllo verticistico che tendeva al mantenimento dell’ordine. Divennero difficoltosi i contatti all’interno e furono decisamente vietati quelli con l’esterno,pena la morte, relegando il paese fuori dalla storia. Intorno alla metà del XIX secolo, però, alla ricerca di nuovi mercati commerciali, le grandi potenze decisero di porre fine all’isolamento nipponico. L’8 luglio 1853 il commodoro statunitense Matthew Calbraith Perry giunse nella baia di Uraga con le sue celebri quattro “navi nere”, chiedendo a nome del presidente Fillmore l’apetrura del Giappone al mondo occidentale. In seguito ai temporeggiamenti nipponici, Perry tornò nel febbraio 1854 con otto navi, facendo chiaramente intendere che non avrebbe tollerato il rifiuto. Al trattato di Kanagawa con gli USA seguirono ben presto quelli con la Gran Bretagna e Russia, gettando nello sconforto quanti avrebbero preferito morire combattendo contro un nemico meglio armato che sottostare a un umiliante cedimento. I contrasti tra “falchi” e “colombe” si acuirono via via fino a spaccare il paese. Ne conseguì inevitabilmente una sanguinosa reazione a catena, culminata nel 1868 con la fine del BAKAFU (shogunato) Tokugawa e con la “restaurazione Meiji”: dopo sette secoli il potere politico dalle mani dello shogun tornava in quelle dell’imperatore. Il giovane Mutsuhito, 122° esponente della dinastia, trasferì la capitale da Kyoto (ove risiedeva dal 794) a Edo, che chiamò Tokyo, ossia “capitale dell’est”, inaugurando l’era Meiji, di “governo illuminato”. Nei primi anni dell’era Meiji (1868-1912), sotto l’infatuazione per la civiltà e i costumi occidentali, il bujitsu subì una rapida decadenza (anche per l’enorme diffusione delle armi da fuoco) e non pochi esperti, rimasti senza allievi, per Questo era il triste spettacolo che apparve a JIGORO KANO. Nato nel 1860 a Mikage presso Kobe, nel 1871 si trasferì a Tokyo con la famiglia.

D’intelligenza vivissima ma di gracile costituzione, doveva subire la prepotenza dei compagni, dai quali avrebbe voluto difendersi praticando il ju-jutsu. Poichè la disciplina era screditata e ritenuta troppo violenta, Kano dovette rinunciarvi, dedicandosi specialmente alla ginnastica e al baseball per irrobustire il suo fisico. Nel 1877, entrato all’università di Tokyo, potè finalmente avvicinarsi al ju-jutsu, cui si applicò con passione, impegnandosi in duri allenamenti (sempre ricoperto di piaghe, era soprannominato “unguento”). I suoi primi maestri furono Hachinosuke Fukuda e Masatomo Iso, della Tenshin-Shin’yo-ryu, dai quali apprese in particolare il KATAME-WAZA e l’ATEMI-WAZA, venendo in possesso dei DENSHO (libri segreti) della scuola dopo la loro morte.Conobbe quindi Tsunetoshi Iikubo, esperto della Kito-ryu, da cui apprese il NAGE-WAZA. Mentre progrediva con sorprendente facilità, penetrando i segreti dei diversi stili, nel 1881 ottenne la laurea in lettere e cominciò ad insegnare al Gakushuin (Scuola dei Nobili). Nel 1882 il giovane professore aprì una palestra di appena 12 tatami nel tempio di Eisho, radunandovi i primi 9 allievi: nasceva così il KODOKAN (“luogo per studiare la VIA”), dove il giovane professore elaborò una sintesi di varie scuole di ju-jutsu. Il nuovo stile di lotta, non più soltanto un’arte di combattimento, ma destinato alla divulgazione quale forma educativa del corpo e dello spirito, venne chiamato JUDO (“VIA della  flessibilità”): come precisò Kano nel 1922, si fondeva sul miglior uso dell’energia (SEI RYOKU ZEN YO) allo scopo di perfezionare se stessi e contribuire alla prosperità del mondo intero (JI TA KYO EI).

Secondo Alan W. Watts:
“il jujitsu è specificatamente la tecnica di un particolare modo di lotta, il judo è piuttosto la filosofia su cui questa tecnica si fonda”. In breve il Kodokan, con un occhio alla tradizione e l’altro al futuro, assurse a grande fama grazie alle importanti vittorie sulle scuole di ju-jutsu: nel 1886, dopo aver trionfato su quella del celebre maestro Hikosuke Totsuka (il Kodokan riportò 13 vittorie e 2 pareggi su 15 incontri), Kano fu incaricato di addestrare la polizia di Tokyo. Il judo, eliminati gli aspetti più violenti insiti nel ju-jutsu, entrò perfino nei programmi scolastici. Nel 1895 Kano elaborò con i suoi allievi migliori il primo GO-KYO (“cinque principi”) o metodo d’insegnamento; nel 1906 riunì a Kyoto i rappresentanti delle varie scuole per delineare i primi KATA (“modelli” delle tecniche di lotta); nel 1921 presentò il nuovo go-kyo, tuttora invariato; nel 1922 diede vita alla Società Culturale del Kodokan.

Il Kodokan, fin dal 1883, subì numerosi trasferimenti, ampliandosi in continuazione:con la sede inaugurata il 25 marzo 1958 arrivò a 1.000 tatami e oggi ne conta quasi 1.300.

Ma lontano dal Giappone, nonostante i viaggi e le dimostrazioni di Kano, si diffuse soprattutto il ju-jutsu, che aveva tratto nuovi stimoli dalla rivalità con il Kodokan. I maestri di ju-jutsu, infatti, costretti a subire la crescente popolarità del judo in patria, trovarono un fertile terreno d’insegnamento all’estero. Vediamo dunque quali furono i pionieri del ju-jutsu in Occidente. Già nel 1901 si trovavano a Londra i maestri giapponesi Raku Uyenishi e Yukio Tani, che insegnarono i rudimenti del ju-jutsu al campione svizzero di lotta libera Armand Cherpillod, cui si deve il primo manuale in lingua francese (tradotto in italiano nel 1906). Nel 1905 Uyenishi aprì una palestra a Londra e Cherpillod diede lezioni ad ufficiali di marina durante un corso a Portsmouth. Risale comunque al 1918 l’avvenimento più importante, ossia la costituzione del BUDOKWAI per opera di GUNIJI KOIZUMI.

A Parigi, dopo una lunga campagna di stampa, il 26 ottobre 1905 s’incontrarono in un combattimento divenuto famoso, il professor Ré-Nié (Gui de Montgailhard) e il maestro Georges Dubois, valente pugile, schermitore e pesista. RéNié, esperto di ju-jutsu, ebbe la meglio sul più pesante rivale in appena 26 secondi con una leva articolare. Sul finire del 1905 giunsero a Parigi Tani e Katsukuma Higashi, provenienti dagli Stati Uniti (dove aveva scritto con Hancock un libro sul “metodo Kano”): in dicembre i due disputarono un interessante incontro all’ippodromo Bostok. Nel 1906, a Berlino, Erich Rahn apriva la prima palestra di ju-jutsu in Germania, venendo ben presto incaricato d’impartire lezioni alla Polizia berlinese e all’Istituto Sportivo Militare. Grazie anche ai numerosi libri di Irving Hancock, fin dai primi anni del secolo gli USA si appassionarono al ju-jutsu (nel 1905 veniva insegnato all’Accademia Navale di Annapolis). Hancock stesso, allievo del maestro Inouye, lo praticò con discreti risultati.

Per approfondire il “metodo Kano” soggiornò in America dal 1902 al 1907 il grande Yoshiaki Yamashita (nel 1935 ottenne il 10° dan), che ebbe tra i suoi allievi il presidente Theodore Roosevelt, graduato cintura marrone dopo tre anni di proficue lezioni impartitegli alla Casa Bianca. Una prova dell’interesse statunitense per il ju-jutsu è la sua inclusione nel programma delle Olimpiadi da disputarsi a Chicago nel 1904 (poi assegnate a Saint Louis).Anche in Italia, dove imperava la lotta greco-romana con i suoi “ercoli” statici e muscolosi, non mancò qualche sporadica dimostrazione. Tra il dicembre 1905 ed il marzo 1906 si disputò il Trofeo Florio di lotta, articolato in tre prove, che ebbero luogo a Palermo, Napoli e Roma. In tutte e tre le città il pubblico potè assistere anche a sfide di ju-jutsu tra lo statunitense Witzler e alcuni partecipanti al Trofeo. A Roma le gare si svolsero al teatro Adriano e videro il successo di Raoul le Boucher su Paul Pons. Lo statunitense Witzler rinnovò la sua sfida, sconfiggendo prima il tedesco Schakmann e poi il senegalese Amalhou, ma arrendendosi al fortissimo Raoul. Stesso copione nell’aprile 1906 al teatro Verdi di Firenze. Sempre nell’aprile 1906 tre maestri giapponesi di passaggio a Roma si esibirono al “Club Atletico Romano” e uno di loro, Ysmano, si trattenne per qualche tempo nella capitale, impartendo lezioni ai soci del club.I numerosi contatti stabiliti tra i marinai italiani e quelli nipponici, consolidati al tempo della rivolta dei Boxer (1900), favorirono la diffusione delle tecniche di ju-jutsu anche tra i nostri soldati, incuriositi ed affascinati dal modo particolare di combattere all’arma bianca o a mani nude: i guerrieri del Mikado, presi singolarmente, erano senza dubbio i migliori mai visti. L’esaltante vittoria giapponese sulla Russia (1904-1905) accrebbe l’ammirazione per quel popolo: uscito da un interminabile medioevo feudale solo nella seconda metà dell’Ottocento, in pochi lustri aveva saputo conquistarsi un posto di primo piano tra le grandi potenze. E nel mondo si cominciò a parlare degli invincibili samurai e del loro codice d’onore, il BUSHIDO (“VIA del guerriero”) che Inazo Nitobe descrisse con efficacia in un libro divenuto ben presto famoso e tradotto per la prima volta in italiano nel 1917.

Domata la rivolta dei Boxer, l’Italia ottenne una concessione a Tientsin, allargando così i propri interessi in Estremo Oriente. Gli entusiastici commenti di civili e militari sulle virtù della lotta giapponese, soprattutto in vista di un suo impiego bellico, convinsero il Ministro della Marina Carlo Mirabello ad organizzare un corso sperimentale sull’incrociatore Marco Polo. Assegnato al capitano di vascello Carlo Maria Novellis il comando della nave, che stazionava nelle acque della Cina, lo incaricò quindi di assumere a bordo un istruttore di ju-jutsu, firmando così l’atto di nascita della lotta giapponese in Italia. Dopo molte ricerche, Novellis trovò a Shanghai un insegnante che godeva la fiducia del console giapponese. Il 24 luglio 1906 venne pertanto stipulato un contratto di quattro mesi, tempo che il maestro giudicava “necessario e sufficiente per portare gli allievi ad un grado di capacità tale da renderli abili ad insegnare a loro volta”. il corso si sarebbe svolto a bordo e al termine gli allievi migliori avrebbero sostenuto gli esami al Kodokan. In ottobre, infatti, i nostri baldi marinai si sottoposero agli esami, ma il risultato fu decisamente negativo. La colpa era del maestro, commentarono al Kodokan: “Pur essendo abbastanza abile, non poteva insegnare ai suoi allievi più di quanto sapesse”, cioè non molto, e quindi non aveva mentito assicurando “che in quattro mesi avrebbe portato gli allievi alla sua altezza”. Si risolse dunque con una beffa la prima esperienza del judo italiano.Per evitare altre spiacevoli sorprese, il povero Novellis pensò allora di richiedere un insegnante proprio al Kodokan, ma Mirabello non diede mai il suo assenso. Il 31dicembre 1906 giunse a Shanghai l’incrociatore Vesuvio e Novellis cedette il comando delle operazioni in Estremo Oriente al capitano di vascello barone Eugenio Bollati di Saint Pierre. Questi fece imbarcare dal Marco Polo due marinai ormai abili nella lotta giapponese: uno di loro, il timoniere brindisino Luigi Moscardelli, nell’aprile 1907 ottenne a Tokyo “il diploma di abilitazione all’insegnamento”. In settembre a bordo del Vesuvio si disputarono le gare semestrali imposte dal Ministro della Marina per mantenere in allenamento gli equipaggi: la gara di ju-jutsu fu vinta dal sottocapo cannoniere Raffaele Piazzolla di Trani sul cannoniere scelto Carlo Oletti, diciannovenne torinese destinato a lasciare un segno profondo nella storia della disciplina in Italia. Le lezioni di ju-jutsu sul Vesuvio furono dunque impartite da un nostro marinaio, magari capace, che aveva però soltanto pochi mesi di esperienza, per di più fatta con un mediocre insegnante giapponese. Attingendo solo saltuariamente alle fonti dell’”arte gentile”, finimmo per confondere il judo con il ju-jutsu, praticando una disciplina “autarchica” ben diversa da quella del Kodokan. Tradendone completamente lo spirito, nel nostro paese il ju-jutsu/judo fu praticato usando molto di più la forza della cedevolezza (ju), trascurando completamente la ricerca della “Via” (do). A riprova della confusione che regnava intorno alla disciplina basti pensare che nel 1926 il termine judo in Italia veniva ancora tradotto “rompi muscoli”! Persino dal già citato Oletti, che si vantava di averne appreso “tutti i segreti” e di essere perciò “padrone di tale metodo”.La prima dimostrazione di ju-jutsu fatta da italiani si svolse a Roma il 30 maggio 1908 durante le feste organizzate dalla Società nazionale per il movimento dei forestieri e dall’Istituto nazionale per l’incremento dell’educazione fisica. Nell’inacntevole scenario di villa Corsini, alle pendici del Gianicolo, “due abilissimi sottufficiali di marina diedero una dimostrazione della teoria e della pratica della lotta giapponese”. Pochi giorni dopo, evidentemente incuriosito, Vittorio Emanuele III volle che l’esibizione fosse ripetuta nei giardini del Quirinale. Così “Il Messaggero” commentava l’avvenimento: -La dimostrazione fu fatta, con molta chiarezza, dal maestro di scherma De Cugni Francesco, il quale dimostrò, con competenza non comune, l’importanza di questo sport, nuovo per l’Italia./ I due lottatori presentati erano i sottuficiali Vegliante Emanuele e Guzzardi Giuseppe. Il re, che si interessò moltissimo dell’esperimento, pregò di ripetere vari colpi e fece scattare molte volte la sua macchina fotografica ritraendoli in più pose.  Da ultimo ebbe per i bravi lottatori parole di vivo compiacimento. Assistevano pure il Ministro della Marina, on. Mirabello, l’ammiraglio Viale e il comandante Como, intelligente ed appassionato cultore dello sport, al quale si deve se tale genere di lotta sta per essere introdotta in Italia./ Il giorno seguente la dimostrazione fu ripetuta nella palestra della Scuola magistrale in Via Cernaia. A conclusione delle feste di maggio il comandante Como di Santo Stefano, già capitano di corvetta sul Marco Polo, tenne al Circolo militare un’applaudita conferenza sull’educazione fisica. Nel giugno 1909, durante la seconda festa sportiva organizzata a Roma dall’Istituto Nazionale di Educazione Fisica, all’”Arena Nazionale” si svolse una nuova dimostrazione di ju-jutsu. Presentati dal 2° capo torpediniere Vegliante, si esibirono il capo timoniere Giuseppe Guzzardi e il capo cannoniere Romolo Scarinei (Vegliante e Guzzardi erano gli stessi del 1908 a villa Corsini). La manifestazione questa volta ebbe però minore risonanza. Nonostante l’ottimo esordio, il cammino del ju-jutsu fu lento e difficile. Infatti, se si eccettua qualche articolo o conferenza, una timida proposta dell’Istituto nazionale per l’incremento dell’educazione fisica e i generosi ma vani tentativi del lottatore bresciano Cristini, della “Via della flessibilità” non si parlò davvero molto in Italia. Risale al 1911 il primo libro italiano che si occupò, per quanto sommariamente, di ju-jutsu: “Pugilato e Lotta libera per la difesa personale”, edito da Ulrico Hoepli. Ma l’autore, il giornalista sportivo Alberto Cougnet, si limitava a riportare ampi brani della già citata opera di Cherpillod. Appena un anno dopo, Cougnet volle tornare sull’argomento, dedicando ampio spazio alla “lotta giapponese” nel suo libro “Le Lotte libere moderne”, ancora nelle edizioni Hoepli. Apprendiamo così che la prima troupe di lottatori nipponici venuta in occidente nel 1907 era guidata dal grande Hitachiyama ed ebbe l’onore di esibirsi alla Casa Bianca davanti al presidente Roosevelt (che fu, come ho detto, allievo del maestro di judo Yamashita). Un’altra troupe si esibi’ a Londra nell’estate 1910. Al campionato mondiale di lotta per professionisti, svoltosi a Parigi nel 1908, aveva preso parte anche il giapponese Akitaro Ono, esperto di ju-jutsu, battuto in greco-romana dal nostro Giovanni Raicevich sia nella capitale francese che al Torneo delle Nazioni disputato al teatro Eden di Milano dal 16 gennaio al 15 febbraio 1911. Quale “contorno” al torneo, Ono sostenne svariati combattimenti di ju-jutsu, promettendo 200 lire di premio a chi avesse saputo resistergli per due minuti: è ovvio che vinse sempre e con estrema facilità. Ma tra i suoi avversari, il già citato Umberto Cristini dimostrò “inconfutabilmente di essere uno specialista finissimo dell’arte nipponica della difesa personale”, tanto che pochi giorni dopo il loro incontro, Ono e Cristini furono invitati a una nuova esibizione. Dal 1° marzo 1911 i milanesi poterono assistere per alcuni giorni agli incontri di sumo, gominuki e ju-jutsu disputati al Trianon da 24 atleti nipponici, che vennero anche al teatro Apollo di Roma dall’11 al 20 marzo.

Commentava Cougnet:
“Sono esibizioni d’una straordinaria suggestività e che dimostrano una tecnica ed un’abilità molto superiore a quella della greco-romana, cristallizzatasi, da due millenni, in formule combattive ed estetiche, ma di poca o nulla praticità come difesa personale”.

A Milano il solito Cristini resistè ben otto minuti all’esperto Atagawa. Di Cristini vanno ricordate anche le sfide milanesi con i lottatori professionisti Ambrogio Andreoli (al teatro Lirico) e Giovanni Raicevich (al Trianon) nel tentativo di dimostrare la superiorità del ju-jutsu sulla lotta greco-romana. Poi, complice anche la guerra, per molti anni sulla lotta giapponese calò il silenzio. E un totale disinteresse mostrò la Federazione Atletica Italiana, che allora si occupava di lotta greco-romana, pugilato e sollevamento pesi, ma non voleva sentir parlare di lotta libera, soprattutto di “catch” o ju-jutsu.Il lavoro compiuto non fu comunque inutile: secondo il maestro Betti Berutto, infatti, i marinai che avevano appreso il ju-jutsu in Estremo Oriente vennero utilizzati per addestrare i “Camaimani del Piave” durante la Grande Guerra. Proprio il conflitto mondiale fece comprendere non solo la necessità di diffondere l’educazione fisica nell’esercito, ma anche l’utilità di disporre di reparti speciali, esperti nel combattimento corpo a corpo. Nel primo dopoguerra due eventi avvicinarono Italia e Giappone, rinverdendo vecchi legami di amicizia: il raid aereo Roma-Tokyo, pensato da Gabriele D’Annunzio ma realizzato dal tenete Arturo Ferrarin tra il febbraio e il maggio 1920, e la visita a Roma dal principe ereditario Hiroito nel luglio 1921. Gli avvenimenti, largamente reclamizzati dalla stampa, ridestarono l’interesse della gente per l’impero del Sol Levante, per i suoi costumi e per le sue efficacissime tecniche di combattimento.Così, sul finire del 1921, il capo cannoniere di prima classe Carlo Oletti (già imbarcato sull’incrociatore Vesuvio), fu chiamato a dirigere i corsi di ju-jutsu introdotti alla Scuola Centrale Militare di Educazione Fisica a Roma, di cui era comandante il colonnello Giulio Cravero. La scuola, istituita con R.D. 20 aprile 1920, ebbe sede nei locali del Tiro a Segno Nazionale, alla Farnesina di Roma, segnalandosi subito all’attenzione generale. Da quel momento le iniziative si susseguirono numerose. Nel 1922 Oletti insegnò nella palestra della “Giovane Italia” in via della Consulta, e dal gennaio 1923 cominciò le lezioni alla “Cristoforo Colombo” in via Tacito, che divenne ben presto la società sportiva più forte d’Italia nel ju-jutsu. Vista la diffusione della disciplina, domenica 30 marzo 1924 i delegati di 28 società o gruppi sportivi civili e militari si riunirono nella palestra della “Colombo” per costruire la FEDERAZIONE JIU-JITSUISTA ITALIANA, presieduta dal comm. Antonello Caprino, avvocato e alto funzionario comunale. Il primo articolo del regolamento tecnico federale riconosceva “quale metodo ufficiale  di jiu- jitsu, sia per l’insegnamento che per la pratica, ilmetodo Kano”.Il 20 e 21 giugno 1924 alla sala Flores in via Pompeo Magno si disputò quindi il primo campionato italiano: il titolo assolutofu vinto da Pierino Zerella, esperto di lotta greco-romana, mentre il titolo a squadre andò alla Legione Allievi Carabinieri di Roma davanti alla SCMEF e alla Guardia di Finanza. “La completa riuscita di tali gare – commentava la stampa – ha confermato l’interesse del pubblico per questo genere di sport, che è mezzo efficace di cultura fisica e di educazione di carattere, mentrre insegna pratiche originali di difesa personale e procedimenti strani tuttora incomprensibili di mezzi per richiamare alla vita”, con evidente riferimento al KUATSU.

Nonostante gli sforzi di pochi appassionati, il ju-jutsu si faceva largo assai lentamente tra il grande pubblico. Tra l’altro, dopo le edizioni del 1924, 1925 e 1926, i campionati italiani erano stati interrotti. E a nulla era servita, nel 1927, la trasformazione della FJJI in FEDERAZIONE ITALIANA LOTTA GIAPPONESE sotto la guida del dinamico Giacinto Pugliesi, presidente della “Colombo”. Ritenendo che la disciplina potesse fare un salto di qualità con una spettacolare manifestazione, il 7 luglio 1928 il quotidiano “L’Impero” organizzò con l’”A.S. Trastevere” una grande riunione di propaganda nella sala della Corporazione della Stampa in viale del Re a Trastevere. La manifestazione ebbe un buon successo grazie a due presenze non previste: la partecipazione dell’ esperto judoka nipponico Mata-Katsu Mori, che si trovava a roma in veste di pedagogo presso la famiglia del poeta Shimoi, e -soprattutto- l’intervento del maestro Kano. Questi, venuto a conoscenza dell’iniziativa mentre era a Parigi, non volle mancare all’appuntamento. Fortunatamente per noi, “L’Impero” comprese il valore di quella presenza eccezionale e mandò senza indugio un suo cronista all’hotel Royal in via XX Settembre per ricevere Kano. E’ bene ricordare che Kano fu un personaggio di rilievo non solo nello sport giapponese: fin dal 1909 rappresentava il Giappone nel CIO e nel 1911 fondò la Japan Amateur Sport Association (il Comitato olimpico giapponese), di cui fu presidente fino al 1921. Rettore del Collegio dei Pari, direttore della Scuola Normale Superiore, addetto alla Casa Imperiale, segretario del Ministero dell’Educatione Nazionale, direttore dell’Educazione Primaria, senatore, ecc., nel 1922 diede vita alla Società Culturale del Kodokan, non riservando però le sue attenzioni solo al judo: aiutò il maestro Gichin Funakoshi di Okinawa a diffondere il karate-do (“Via della mano vuota”) e s’interessò dell’aikido (“Via dell’armonia con l’energia universale”), la disciplina elaborata dal maestro Morihei Ueshiba. Servendosi dell’illustre poeta Harukichi Shimoi quale interprete, nel luglio 1928 Kano rilasciò a “L’Impero” un’intervista preziosa. Ritengo quindi utile trascriverne un brano significativo:

- Il judo è l’arte di utilizzare col massimo rendimento la forza umana: utilizzare la forza umana vuol dire farle assumere diverse forme e farle raggiungere diversi risultati. Combattere per la gioia di vincere, cercare la robustezza del proprio fisico, coltivare la forza senza perdere nulla in scienza e in intelligenza, migliorare l’uomo rispetto alla vita sociale: ecco i fini che deve avere uno sport che vuole rendersi utile nella vita di una razza e di una nazione. Ed ecco ciò che si propone il Judo, il quale non ha solo lo scopo di educare il corpo, ma vuole anche plasmare moralmente e intellettualmente l’individuo per formarne un ottimo cittadino[..]. Per questo il Judo in giappone non viene considerato un’arte, ma come una cultura, che oltre ad offrire un’utilità immediata con la difesa personale per la vita, rinvigorisce i sentimenti migliori dello sportivo e dell’uomo. Poco dopo la manifestazione a Trastevere, si svolsero alla SCMEF i primi esami per l’attribuzione della qualifica di maestro. Quindi nel maggio 1929, si disputò il campionato laziale e in giugno, sempre a Roma, il quarto campionato italiano. Ma il trasferimento di Oletti a La Spezia nel 1930, nonostante le manifestazioni caparbiamente organizzate dalla “Colombo”, raffredò non poco gli entusiasmi. Nel febbraio 1931, per di più, la FILG venne sciolta e la sua attività inquadrata nella Federazione Atletica Italiana (fondata nel 1902 dal marchese Luigi Monticelli Obizzi), provocando l’inesorabile declino del ju-jutsu.

Mi pare a questo punto interessante esaminare qualche curiosità emersa dalla lettura dei primi regolamenti federali. Secondo il regolamento della Federazione Jiu-Jitsuista Italiana (1924) i praticanti si dividevano in Maestri (cintura nera), Esperti (blu) e Lottatori (bianca), distinti in professionisti e dilettanti. Si diveniva Maestro o Esperto, abilitati all’insegnamento e all’arbitraggio, superando gli esami annuali banditi dalla FJJI. Cinque erano le categorie di peso: piuma (fino a 60 Kg), leggeri (fino a 70), medi (fino a 80), medio-massimi (fino a 90), massimi (oltre 90). Gli incontri dovevano disputarsi tra atleti aventi la stessa qualifica e peso, e solo i professionisti potevano mettere in palio il titolo in combattimenti al di fuori delle gare organizzate annualmente dalla Federazione. Gli incontri, sia tra dilettanti che tra professionisti, si disputavano in tre riprese, con intervalli di due minuti, di durata complessiva non superiore a trenta minuti. Risultava vincitore chi si aggiudicava almeno due riprese, ma l’arbitro poteva sospendere il combattimento per resa o manifesta inferiorità tecnica di uno dei contendenti.La materassina, “imbottita di lana, crino e segatura”, misurava non meno di 4 metri per lato (con spazio libero circostante di almeno un metro) e appoggiava su pavimenti di legno. Gli atleti indossavano la casacca bianca e i calzoncini. Erano facoltative le calze e le ginocchiere elastiche, vietate le scarpe. Per effettuare il saluto, obbligatorio “all’inizio del primo assalto e al termine dell’ultimo”, gli avversari si disponevano agli angoli opposti della materassina, appoggiavano sul tappeto le mani e il ginocchio destro, quindi eseguivano un inchino con la testa; in caso di sfida, lo sfidante batteva la mano destra sul tappeto. Proiezioni e immobilizzazioni erano valide solo se effettuate all’interno della materassina. Il regolamento vietava le prese alle dita di mani e piedi, nonchè i colpi con qualsiasi parte del corpo, ma consentiva strangolamenti “con gli avambracci, con le gambe e con i baveri”, oltre a compressioni con le gambe “ai fianchi, all’addome ed allo stomaco”.

Le sanzioni disciplinari consistevano in: ammonizione, sospensione fino a due mesi, sospensione fino a sei mesi, espulsione. divisi in Maestri Arbitri (cintura nera), Esperti Arbitri (blu), Lottatori professionisti posizione”. La durata dei combattimenti, sempre in tre riprese con intervalli di due minuti, fu ridotta a 15 minuti per i dilettanti e 21 per i professionisti. L’ultimo articolo del regolamento stabiliva che ogni incontro fosse improntato “al più alto senso cavalleresco e, più che una dimostrazione di forza, doveva essere lo sfoggio dell’intelligenza e della tecnica acquisita nel metodo”. Lo statuto-regolamento della FAI approvato dal CONI nel gennaio 1933, per la lotta giapponese, prevedeva le stesse norme del 1927. Va tuttavia rilevato un cambiamento importante: il termine “Jiu-Jitsu Judo” era stato sostituito dal semplice “Judo”. Kano morì sul piroscafo Hikawa-Maru nel maggio 1938, mentre tornava in patria dopo aver presenziato al Congresso del CIO svoltosi al Cairo. Non assistette quindi alla disfatta del suo paese, ma un paio di anni prima, quasi presagisse la tempesta, aveva lasciato una specie di testamento spirituale ai judokas di tutto il mondo: – Il Judo no è soltanto uno sport. Io lo considero un principio di vita, un’arte e una scienza [...] Dovrebbe essere libero da qualsiasi influenza esteriore, politica, nazionalista, razziale, economica, od organizzata per altri interessi. Tutto ciò che lo riguarda non dovrebbe tendere che a un solo scopo: il bene dell’umanità.

Dopo un lunghissimo silenzio, il 14 giugno 1942 ebbe inizio alla Scuola di polizia di Caserta il 1° Corso allenatori di lotta giapponese, diretto dal prof. FRANCESCO CAO, che aveva abitato a lungo in Giappone, ottenendovi la cintura nera. I 19 atleti selezionati agli esami del 30 luglio presero parte al Corso di perfezionamento inaugurato il 3 settembre alla Scuola di Polizia di Roma. Gli appunti di Cao, pubblicati nel 1943 dal Ministero dell’Interno, non parlavano più di ju-jutsu, ma di judo. E indubbiamente nell’opuscolo si riscontrava una chiara conoscenza dello “stile Kodokan”, persino nell’uso dei termini giapponesi appropriati. Cao descrisse con minuzia il “saluto”, le “posizioni”, gli “spostamenti”, gli “squilibri”, le “cadute”, suddividendo le tecniche secondo lo schema ancora oggi adottato. Il “vero” judo faceva quindi capolino in Italia proprio nel momento più tragico della nostra storia recente.

Giovanni Valente, insediatosi alla presidenza federale nel luglio 1941, organizzò inoltre il Trofeo di Giudò, concluso a Venezia il 5 luglio 1943 con la vittoria di Enzo Fantoni su Marino Cipolat (ambedue agenti di P.S. del Centro di Milano). Il 3 ottobre 1943 doveva disputarsi a Roma il campionato assoluto (l’ultimo risaliva al 1929), ma le drammatiche vicende succedute al 25 luglio arrestarono il cammino del judo italiano.

Con il decreto 2 agosto 1943 il Partito Fascista veniva soppresso e il CONI posto alle dipendenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Pochi giorni dopo il Maresciallo Badoglio nominò Commissario del CONI il conte Alberto Bonacossa, che il 12 agosto assunse anche la presidenza di tutte le Federazioni Sportive. Poi venne l’8 settembre, quindi l’occupazione tedesca, la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, la Resistenza e, finalmente, la Liberazione. Per la lotta giapponese, tuttavia, i giorni erano sempre bui. Solo nel 1947 si ebbe una ripresa dell’attività con la nomina di una Commissione tecnica presieduta da ALFONSO CASTELLI, Segretario generale della FEDERAZIONE ITALIANA ATLETICA PESANTE (FAI fino al 1933). La commissione incontrò molti ostacoli per i contrasti sorti tra i suoi membri, ciascuno dei quali “asseriva di essere il solo depositario del VERO metodo” (Castelli), anche se soltanto Alfredo Galloni fu poi irremovibile nella sua intransigenza, fondando una Federazione separata.

Il primo campionato nazionale del dopoguerra si disputò a Lanciano nei giorni 1 e 2 maggio 1948. A contendersi la vittoria nelle cinque categorie furono 29 atleti di 9 società: cinque di Roma (CUS, Excelsior, Fronte della Gioventù, Poligrafico, Ymca), due di Lanciano, una di Bari e una di Varese. I titoli individuali andarono ad Adriano Battisti (piuma), ad Augusto Ceracchini (leggeri), a Carlo Mazzantini (medi), ad Amerigo Santarelli (medio-massimi) e a Vincenzo Fanelli (massimi). Nella classifica per società fu prima la S.G. Angiulli di Bari, diretta dal maestro Franco Scioscia, davanti all’U.S. Excelsior e al CUS Roma, allenate da Romolo Stacconi e Arnaldo Santarelli. In occasione dei campionati si riunì la Commissione tecnica, che prese atto delle dimissioni di Castelli, eleggendo Presidentre Stacconi. Durante il III Congresso della FIAP, tenuto a Genova il 16 e 17 ottobre 1948, Giorgio Giubilo fu confermato Presidente e Castelli Segretario Generale. Il Congresso approvò il nuovo statuto federale, che contemplava tra gli organi centrali il GRUPPO AUTONOMO LOTTA GIAPPONESE (trasformato in Gruppo Autonomo del Judo nel 1951). Sciolta la Commissione tecnica il 29 ottobre, l’Assemblea del GALG svoltasi a Roma il 14 novembre elesse Presidente ALDO TORTI, Segretario Arnaldo Santarelli, Consiglieri Tommaso Betti Berutto e Alfredo Cardarelli. Rintracciato dall’ex allievo Betti Berutto ad Angera, sul Lago Maggiore, il 18 gennaio 1949 Carlo Oletti accettò la presidenza onoraria “e con la sua autorità rese possibile la riunificazione generale di tutte le forze judoistiche italiane” (Castelli). Nel Congresso del GALG tenuto il 29 marzo, infatti, il numero dei Consiglieri fu portato a quattro con l’inclusione di Roberto Piconi e del “pentito” Galloni. Per la stesura del testo definitivo del regolamento tecnico fu nominata una commissione presieduta da Oletti e composta da Galloni, Piconi, Porceddu, Ramella, Scioscia e Stacconi. Il regolamento, pubblicato su “Lotta e Pesi” il 1° marzo 1949, tra l’altro divideva i praticanti in tre categorie: allievi (cintura bianca), lottatori di III, II o I serie (cintura verde, rossa o marrone), maestri (cintura nera). Il 1° dan venne riconosiuto a 7 maestri, il 2° dan a 11, il 3° dan a 9, e precisamente a Giulio Bovi, Francesco Cao, Mario Cuzzocrea, Oronzo Donno, Alfredo Galloni, Ennio Marchionni, Lucio Migiarra, Michele Savarino e Franco Scioscia. In occasione delle Olimpiadi del 1948, per iniziativa del Budokwai di Londra, fu convocata una conferenza internazionale presso il New Imperial College a South Kensington. Si decise la costituzione dell’EUROPEAN JUDO UNION, di cui fu eletto presidente l’inglese Trevor P. Legget, l’unico non giapponese graduato 5° dan- Il 29 ottobre 1949 si riunì a Bloomendaal, in Olanda, il II Congresso dell’UEJ, che approvò lo statuto e il regolamento tecnico, ripreso da quello del Kodokan. Aldo Torti fu eletto Presidente, Castelli Segretario, Galloni tesoriere, e la sede venne trasferita a Roma. “Era la prima Federazione internazionale – anche se modesta – presieduta da un italiano e con sede in Italia, dopo la guerra” (Castelli). Davvero una grande soddisfazione dopo tanti momenti bui.Il 29 ottobre 1950 si svolse a Venezia il III Congresso dell’UEJ, che confermò Torti Presidente e Castelli Segretario. Il IV Congresso si tenne a Londra il 2 luglio 1951. Ispirato dalla Francia, il Kodokan di Tokyo inviò un messaggio nel quale proponeva di trasformare l’UEJ in una Federazione internazionale sotto la presidenza di Risei Kano, figlio di Jigoro, e con sede nella capitale nipponica. Sulla trasformazione “l’Italia era d’accordo ed aveva anzi preparato uno statuto che venne approvato con poche modifiche. Ma non era d’accordo nel consegnarsi mani e piedi legati ai giapponesi, perchè riteneva che ciò costituisse un ostacolo alla realizzazione del massimo programma che era quello di far ammettere il judo alle Olimpiadi. La maggiore accusa che il C.I.O. faceva al judo, infatti, era quella di essere uno sport nazionale giapponese e non uno sport universale. Consegnandosi ai giapponesi si sarebbe rafforzata questa opinione. Gli italiani si opposero con tutte le loro energie e, per quella volta, riuscirono a spuntarla” (Castelli). La neonata FEDERATION INTERNATIONAL DE JUDO elesse Torti Presidente e Castelli Segretario, ma nel settembre 1952, al Congresso di Zurigo, la presidenza passò a Kano e la sede si trasferì a Tokyo. Torti fu però posto a capo della ricostituita UEJ.

Già alla fine del 1951, tuttavia, Castelli si era dimesso da Segretario della FIJ. Tra l’altro contestava ai francesi di offrire la Presidenza della Federazione ai nipponici prima ancora della loro adesione al nuovo organismo: “Come se ad un ospite, che non è ancora entrato in casa nostra, ci recassimo sulle scale ad offrirgli una tazza di caffè!”. Il casus belli consisteva nelle categorie di peso. L’Italia ne era la principale sostenitrice, mentre la Francia si dichiarava nettamente contraria, rifacendosi alla concezione orientale. I nostri rappresentanti sapevano, e i fatti lo hanno ampiamente dimostrato, che “la romantica storiella dell’uomo piccolo e debole che può battere il colosso è vera solo quando l’uomo piccolo e debole conosce benissimo il judo e il colosso non lo conosce affatto. Ma nel campo agonistico, quando entrambi gli atleti sono tecnicamente preparati, il colosso no ha nessuna difficoltà a sbatacchiare per aria l’uomo piccolo, anche se questi non è affatto debole. In queste condizioni, ostinarsi a dare l’ostracismo alle categorie di peso significava chiudere gli occhi alla realtà” (Castelli). Nel settembre 1951 la NAZIONALE DI JUDO esordì a Salisburgo nella Mitropa Cup. La nostra squadra, composta da Cesare Canzi, Augusto Ceracchini, Mario Sarocco, Elio e Virgilio Volpi, fu sconfitta 8-2 dall’Austria e 7-3 dalla Germania. Il 5 e 6 dicembre 1951, al Palais des Sport di Parigi, si disputò la prima edizione dei campionati europei di judo (senza categorie di peso, introdotte però l’anno successivo): il romano Elio Volpi conquistò la medagli di bronzo tra le cinture marroni, dietro il francese Duprè e l’olandese Geesink. Ancora medaglie di bronzo con Volpi (2) e Gaddi nel 1952 a Parigi, con Maurizio Cataldi e Nicola Tempesta nel 1954 a Bruxelles. Nell’ottobre 1953 vincemmo la prima medaglia a squadre ai campionati europei: a Londra fummo terzi dietro l’Olanda e Francia. Al contemporaneo Congresso dell’UEJ Maurizio Genolini fu nominato per acclamazione Segretario Generale.

Il 5 ottobre 1952 si costituì il Collegio delle Cinture Nere di judo: Presidente onorario era Oletti, Presidente effettivo Arnaldo Santarelli, Segretario Tommaso Betti Berutto. L’1-2 novembre 1952 si svolse a Trento il IV Congresso federale, che vide il Vice-presidente Valente superare il Presidente in carica Giubilo per 134 voti contro 132. Come ho già ricordato, a Valente si doveva la ripresa del judo tra il 1941 e il 1943, quindi la sua elezione fece nascere giustificate speranze. Qualche mese dopo un altro avvenimento galvanizzò i judokas italiani: su invito del Kodokan Club di Roma, nel 1953 venne nel nostro paese il maestro NORITOMO KEN OTANI, allora 5° dan (seguito nel 1956 da Tadashi Koike), che contribuì in maniera decisiva allo sviluppo del judo in Italia. Le speranze, tuttavia andarono presto deluse. Dal 31 ottobre al 1° novembre 1953 si svolse a Rimini il VII Congresso federale, che soppresse il Gruppo Autonomo Judo inquadrando il judo tra le discipline della FIAP, “a parità di doveri, ma non ancora di diritti” (Castelli). Dopo lo scioglimento del GAJ, alla guida del judo si susseguirono diversi commissari finchè, nel 1956, tutti i poteri tecnici si concentrarono nelle mani di Genolini. In quell’anno si disputò a Tokyo il primo campionato mondiale di judo, in categoria unica, vinto dal nipponico Natsui. L’Italia, assente alla prima e alla seconda edizione (Tokyo 1958), prese parte alla terza edizione del mondiale (Parigi 1961), l’ultima in categoria unica, ottenendo un 5° posto con Remo Venturelli.Ai campionati europei svoltisi a Rotterdam nel novembre 1957, NICOLA TEMPESTA regalò all’Italia la prima medaglia d’oro nella disciplina. La seconda l’ottenne quattro anni dopo, agli europei disputati al Palazzo Lido Sport di Milano dall’11 al 13 maggio 1961. Tempesta vinse nella categoria “quarti dan”, Fiocchi fu terzo nei leggeri e l’Italia terza nella gara a squadre. Agli europei il campione napoletano ha vinto complessivamente 2 medaglie d’oro, 6 d’argento e 5 di bronzo, di cui quattro nel torneo a squadre.

Nel 1962 ai campionati giapponesi di judo furono introdotte per la prima volta le categorie di peso: leggeri, medi e massimi. E agli europei del 1963, abolite le gare per dan, si tenne conto soltanto delle categorie di peso. Dopo tante polemiche, si riconosceva così implicitamente la validità delle proposte avanzate dall’Italia in seno all’UEJ e alla FIJ.

Le Olimpiadi del 1964 si disputarono a Tokyo e per la prima volta nel programma figurava il judo con 3 categorie di peso e l’”open”. Va sottolineato che nella patria del judo l’olandese Anton Geesink vinse l’oro nell’open battendo Akio Kaminaga per immobilizzazione a terra. Un silenzio di ghiaccio scese sulla Nippon Budokan Hall stipata da 15.000 spettatori, anche se la sconfitta non doveva risultare del tutto inaspettata, visto che l’olandese era campione europeo e mondiale in carica. Geesink concluse la sua straordinaria carriera sportiva dopo aver vinto il secondo titolo mondiale a Rio de Janeiro nel 1965 e il 23° titolo europeo a Roma nel 1967. Il 23 ottobre 1966, nella palestra del “Kodokan Milano”, si svolse il primo campionato nazionale femminile, in 5 categorie. E in dicembre debuttò la Nazionale femminile, battendo la Cecoslovacchia a Kromeritz. Nessuno, allora, avrebbe potuto immaginare i successi ottenuti dalle ragazze del judo dal 1975 (primo campionato europeo femminile, a Monaco) ad oggi: una medaglia d’argento e una di bronzo in 2 Olimpiadi (1988 e 1992); 5 medaglie d’oro, 3 d’argento e 3 di bronzo in 8 campionati mondiali (il primo fu disputato nel 1980, a New York); 11 medaglie d’oro, 19 d’argento e 32 di bronzo in 21 campionati europei. Le atlete più decorate sono EMANUELA PIERANTOZZI (medaglia d’argento alle Olimpiadi; 2 medaglie d’oro ai campionati mondiali; 2 medaglie d’oro, 2 d’argento e 2 di bronzo ai campionati europei), ALESSANDRA GIUNGI (medaglia di bronzo alle Olimpiadi; una medaglia d’oro, una d’argento e una di bronzo ai mondiali; 2 medaglie d’oro, una d’argento e 4 di bronzo agli europei), Maria Teresa Motta (una medaglia d’oro e una di bronzo ai mondiali; una medaglia d’oro, 2 d’argento e 4 di bronzo agli europei), Margherita De Cal (una medaglia d’oro ai mondiali; 2 medaglie d’oro, 2 d’argento e 2 di bronzo agli europei), Laura Di Toma (una medaglia d’argento ai mondiali;3 medaglie d’oro, una d’argento e 5 di bronzo agli europei). Dimessosi Valente, il 5 gennaio 1965 la Giunta Esecutiva del CONI nominò Carlo Zanelli Commissario straordinario della FIAP. Con il nuovo statuto, approvato dal CONI il 16 settembre 1965, si stabilì che il Consiglio federale fosse composto, in parti uguali, da membri eletti dai tre Settori (Lotta, Pesi e Judo) con votazioni separate. Zanelli fu eletto Presidente il 25 febbraio 1967 e resse la carica fino al 29 marzo 1981, allorchè gli successe il Dott. Matteo Pellicone. Dopo la divisione della FIAP in tre Settori, sono stati Vice-presidenti del Settore Judo: Alessandro Chieco Bianchi (1967-69), Augusto Ceracchini (1969-78, anno in cui è immaturamente deceduto), Maurizio Genolini (1978-81), Giancarlo Zannier (1981-84), Ezio Evangelisti (dal 18 gennaio 1985).

Il Congresso dell’UEJ svoltosi a Lussemburgo il 6 maggio 1966 assegnò la 16a edizione dei campionati europei a Milano, che già li aveva organizzati nel 1961. Viste le difficoltà a reperire un’idonea sede nel capoluogo lombardo, la manifestazione venne dirottata a Roma e si svolse dall’11 al 13 maggio 1967 al Palazzetto dello Sport: vi parteciparono 154 atleti di 22 nazioni. L’organizzazione fu esemplare, grazie all’opera dell’apposito Comitato presieduto da Ceracchini, ma gli azzurri non vinsero medaglie. Alla vigilia delle gare atleti e accompagnatori erano stati ricevuti dal Papa e in Campidoglio.Le altre grandi manifestazioni internazionali di judo svoltesi in Italia sono state i campionati europei femminili del 1980 (Udine) e del 1983 (Genova), gli europei a squadre del 1979 (Brescia) e del 1982 (Milano), gli europei speranze e juniores maschili del 1971 (Napoli), i mondiali juniores maschili del 1986 (Roma), i mondiali militari del 1976 (Ancona) e del 1985 (Riccione). Il 20 aprile 1970, alla presenza del Presidente del CONI, s’inaugurò all’Acqua Acetosa di Roma il I Corso Nazionale per Insegnanti Tecnici di Judo, intitolato a Jigoro Kano. Il Corso, diviso in cinque turni di una settimana ciascuno, cui parteciparono complessivamente 340 tecnici, si concluse il 3 novembre 1970.Durante la cerimonia Zanelli conferì a Onesti la cintura nera ad honorem e a Ceracchini il 6° dan. Con motu proprio del Presidente, nel 1977 Ceracchini fu promosso 7° dan, il massimo grado mai assegnato in Italia fino ad allora. Nel 1971 l’Avv.Augusto Ceracchini, Vice-presidente federale, con l’appoggio del Presidente Zanelli e la collaborazione di Genolini (scomparso nel marzo 1995) varò l’ACCADEMIA NAZIONALE ITALIANA DI JUDO, la cui sede venne fissata nella foresteria del Velodromo Olimpico all’EUR. I primi 14 allievi (corso Alfa) iniziarono le lezioni il 12 settembre 1971 e il 23 novembre furono ricevuti in udienza da Papa Paolo VI, che rivolse loro cordiali parole di stima: “Abbiamo letto il regolamento e i programmi: ne abbiamo ricavato l’impressione di una serietà, di una, quasi diremmo, ascetica norma di vita e di studio, per raggiungere la completezza umana, scientifica e agonistica, necessaria per svolgere domani, in modo adeguato, la vostra attività”.

Nel marzo 1974 l’Unione Europea di Judo riconobbe l’Accademia quale sua istituzione ufficiale. Sempre nel 1974 l’Assemblea federale straordinaria mutava il nome della FIAP in FEDERAZIONE ITALIANA LOTTA PESI e JUDO. Dal marzo 1981 la FILPJ Mario Vecchi un secondo e un terzo posto agli europei, Mario Daminelli e Yuri Unica medaglia maschile ai campionati mondiali dopo l’epoca Gamba-Mariani.Ma il judo non è solo agonismo: come sosteneva Kano, è KATA (forma), ovvero la grammatica, e RANDORI (esercizio libero), ovvero la sintassi. E’ bene, a mio parere, non dimenticare mai che il judo è molto di più di uno sport. A questo proposito mi piace ricordare le parole di Guniji Koizumi: “Lo scopo ultimo del Judo è l’unione armonica degli opposti nella realtà della Vita. In altre parole, il Judo realizza l’unione dell’Uomo e della Natura”. Nella seduta del 21 giugno 1985 il Consiglio Federale accolse anche il ju-jutsu e l’aikido tra le discipline controllate dalla FILPJ in quanto complementari del judo, “finalizzate alla difesa personale e all’ arricchimento tecnico e culturale”. Nel 1992 il Settore Judo contava 1.187 società con 64.271 tesserati ( di cui 1.230 nel jujitsu e 1.665 nell’aikido), 2.364 insegnanti e 658 ufficiali di gara. Come tutti sappiamo, con la recente inclusione del Settore Karate, la nostra Federazione si è trasformata in FILPJK. Due date importanti, per concludere: 25 aprile 1990, inaugurazione del PALAZZETTO FILPJK, e 18 dicembre 1992, inaugurazione del CENTRO di PREPARAZIONE OLIMPICA.

Un complesso magnifico, quello di Ostia, destinato a lasciare una traccia indelebile non solo nella storia della Federazione, ma nella storia urbanistica della capitale. Questi appunti sono frutto di una più vasta ricerca, in parte pubblicata nel volume FILPJ: “90 anni di storia” (1902-1992), edito dalla Federazione, nel “Breve prontuario per aspiranti tecnici di judo”, edito dal Comitato Regionale Laziale, e nelle riviste ‘Athlon’, ‘Judo’, ‘Lancillotto e Nausica’,’ Spaziosport ‘, ‘Sportivo’, ‘Sportmese’, il tutto aggiornato al giugno 1995.

Il Judo ha la natura dell’acqua.
Eccola, turbinante nelle cascate del Niagara,
calma nella superficie di un lago,
minacciosa in un torrente
o dissetante in una fresca sorgente scoperta un giorno d’estate.
Questo è il principio del Judo.
Guniji Koizumi

Livio Toschi



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