Quieto di Màrius Serra, commento del prof. Augusto Guarino
Quella che lo scrittore catalano Màrius Serra ci racconta in Quieto (uscito ora da Mondadori nella bella traduzione di Betrice Parisi) è anzitutto una grande storia d’amore. Del tipo d’amore più grande, che è forse anche quello più difficile da dire: quello dell’amore del padre per un figlio.
Ma se è già difficile scrivere dell’amore filiale, lo è ancora di più nel caso della storia –vera– di Màrius Serra e di suo figlio Lluís. Il piccolo Lluís, detto Llullu, non infatti non è un bambino come gli altri. Fin dalla sua quinta settimana di vita si capisce che è vittima di una encefalopatia che ne blocca lo sviluppo e che compromette la maggior parte delle sue facoltà motorie. Ma anche Màrius non è un genitore come gli altri; è uno scrittore e fin dall’inizio sa che verrà un momento in cui scriverà del suo rapporto con suo figlio. Ma come scrivere del proprio rapporto d’amore e di immenso dolore con un bambino quasi completamente inerte, il cui corpo è solo talvolta scosso da spasmi epilettici ?
Il fatto è che Màrius Serra non è uno scrittore “normale” (posto che ve ne siano). Sino a quel momento si è reso noto per la sua intensa attività di giornalista e conduttore di programmi culturali televisivi, come autore di cruciverba (si vanta di averne composti più di diecimila) e di giochi enigmistici, di brillanti racconti e di romanzi intessuti di fini invenzioni verbali e trame grottesche e ardite.
Un po’ alla volta capisce che scriverà del figlio –che nel frattempo, pur nelle estreme difficoltà, è cresciuto ed ha vissuto i primi suoi sette anni– in modo assolutamente non retorico, ma anzi proponendo una visione del suo rapporto con il bambino al tempo stesso tenera e paradossale, e quindi essenzialmente vera. Il libro è costruito come une serie di “istantanee” che corrispondono a varie fasi di questo difficile ma anche gioioso itinerario, distribuite senza seguire l’ordine cronologico. Ciascuna rappresenta una “situazione” in cui la coppia padre-figlio è in realtà al centro di una relazione più estesa con il mondo, che può essere di volta in volta quello dei medici e delle strutture sanitarie (caratterizzati talvolta da un linguaggio più astruso e grottesco degli stessi giochi enigmistici), dei parenti e degli amici, oppure di semplici passanti che reagiscono in modo imbarazzato o bizzarro alla presenza del bambino disabile in carrozzina.
L’idea è che ciascuna di queste immagini, fatalmente statiche, possa esser rimescolata e rimessa in moto dal processo di lettura, restituendo al bambino quella dimensione dinamica che la malattia gli ha negato. Per rendere anche visivamente questo processo Serra adotta un artificio grafico, che viene riprodotto in conclusione del libro: fa scattare al figlio una sequenza di fotografie in tenuta da atleta, in modo che sfogliate velocemente di seguito diano l’illusione della corsa. Questa finzione di movimento rappresenta simbolicamente il lieto fine del libro, la precaria vittoria in una guerra destinata a essere persa (il piccolo Lluís è scomparso a poco più di un anno dalla pubblicazione del libro). Il che è comune, sia pure nell’immensa diversità dei destini, a qualsiasi condizione umana. Quieto è un libro commovente e importante perché ci fa capire che anche la più radicale disabilità è una condizione estrema ma non estranea.
Può sembrare impossibile, ma nel libro il dolore e perfino il pianto si alternano spesso al piacere liberatorio del riso. C’è naturalmente al fondo di questa sofferta relazione una ineludibile domanda sul senso di questa esperienza. La risposta di Màrius Serra non rimanda al trascendente ma è invece totalmente compresa nell’immanente: quella del piccolo Llullu non è altro che un’estrema, peculiare, irripetibile condizione di vita.
Tutto il testo è giocato sulla sottile dialettica tra il poter ricordare del padre e l’impossibilità a ritenere i ricordi del figlio, con l’apparente banalità che solo chi ricorda può dimenticare (o, mi permetto di aggiungere, selezionare). Ciascuna delle immagini finali della corsa del bambino è accompagnata da un breve commento, quasi un aforisma, sulla possibilità del ricordo e della dimenticanza. Mi sembra che all’ultima di queste annotazioni Màrius Serra riservi il messaggio definitivo, che può portare alla memoria alcuni esiti della poesia sapienziale orientale, di ispirazione taoista o Zen:
Chi non ricorda, non dimentica.
Chi non dimentica, ricorda.
Chi ricorda, dimentica.
Chi dimentica, non ricorda.
Chi non ricorda non dimentica.
Amo, ma non me ne ricordo.
Mi amano e non lo dimentico.
Non sarò mai dimenticato.
Certamente Màrius Serra non dimenticherà mai suo figlio. A sua volta, chi leggerà questo libro difficilmente se ne dimenticherà.
prof. Augusto Guarino