Percorsi psicologici nell’aikido

La possibilità di mettere in evidenza implicazioni di natura psicologica in aikido è legata alle stesse modalità di definizione, da parte del fondatore, della natura di questa arte marziale, oltre che allo scenario storico e culturale degli inizi del ‘900 di un paese come il Giappone, da poco uscito da una fase “medioevale” e fortemente dotato di coesione in tutti gli aspetti della vita sociale. Il senso del mio intervento potrà essere compreso fissando il dato fondamentale per il quale tecniche definibili di natura psicologica sono comprese in oriente –nel caso specifico in Giappone- in quella che ai nostri occhi appare una pratica religiosa. All’interno delle discipline orientali c’è un legame tra religione, ossia approccio alla spiritualità, e ciò che noi chiamiamo Psicologia, in quanto intervento sulla psiche della persona e sul suo comportamento, qualcosa che peraltro riconduce al carattere etimologico del termine psico-logia, cioè un discorso o una tecnica che riguardi l’anima. Di qui la fondamentale importanza di evidenziare il substrato da cui questa arte marziale nasce, che può, più che in altri casi, essere riferito ad una personalità unica, quella di Morihei Ueshiba. Il Fondatore nasce in una famiglia fortemente impregnata di credo Shinto, la religione tradizionale giapponese, che ha un’influenza importante sulle arti marziali e che giocherà un ruolo determinate anche sulla formazione di Ueshiba. Pratica anche una in setta del buddismo vajrayana, in particolare nel gruppo dello Shingon, che tra l’altro ha esercitato un influsso diretto su alcune arti marziali (scuole come la Tenshin Shoden Katori Shinto Ryu, che però Ueshiba conobbe solo indirettamente, attraverso il contatto con alcuni suoi allievi che ne erano già praticanti). Uno degli incontri fondamentali della sua vita è quello nel 1919 con Onisaburo Daguchi, il capo di una delle 200 nuove religioni nate proprio in Giappone, l’Omotokyo, alla quale Ueshiba aderirà fino alla sua morte. L’incontro con questa controversa quanto affascinante personalità –un misto di artista, sciamano e imbonitore- influenza molto il modo di concepire la vita di Ueshiba ed anche la sua esperienza nelle arti marziali. Ueshiba incomincia molto presto a praticare le arti marziali, ed in particolare quelle tradizionali della sua famiglia e del suo villaggio: l’arte della spada, l’arte della lancia, il sumo. Presto incomincia a studiare uno degli stili di jujitsu da cui nasce anche il judo (lo stile Ten Shin Shinyo) e lo stesso Judo moderno della scuola del Kodokan; studia anche successivamente l’arte della spada dello stile Yagyu. Determinante, dal punto di vista tecnico, è l’incontro nel 1913 con Sokaku Takeda, formidabile diffusore di un’arte marziale che affonda le sue radici nel profondo passato feudale, ma che egli stesso sta reinterpretando alla luce delle sue esperienze di combattente girovago, il Daito Ryu Aikijujitsu, di cui Ueshiba diventa un entusiasta praticante e diffusore fino agli anni ’30. L’aikido però non nasce dalla semplice giustapposizione degli aspetti tecnici di un multiforme insieme di arti marziali. Esso si propone in modo “psicologicamente interessante” perché rappresenta un tentativo di risposta a un disagio personale, a sua volta inserito in una fase di crisi e di cambiamento dell’intera società giapponese, che in quegli anni viene sottoposta a un accelerata globalizzazione.Tale trasformazione avviene in modo traumatico, data anche la sua enorme portata: vengono abolite le caste, viene proibito l’uso delle armi, viene costituita l’istruzione pubblica (che fino a quel momento era riservata a una minoranza e affidata ai maestri dei clan o agli ordini religiosi), viene creato per la prima volta un esercito nazionale sulla base del modello europeo. Si studiano e si imitano i sistemi politici ed economici dei paesi allora dominanti, soprattutto la Germania e l’Inghilterra. L’aikido si inserisce in questo grande movimento culturale di transizione del Giappone verso l’età moderna, come peraltro altre forme di budo moderno (judo, kendo, karate, ecc., che danno tuttavia prevalentemente una nobile risposta sportiva alla crisi della modernità). In questo senso l’Aikido è quindi interessante, ancora oggi, anche come risposta maturata in una società che, come le nostre, stava cambiando molto velocemente. Una società in rapida trasformazione non è in grado di dare risposte, offrire modelli e certezze, ma anzi si definisce come un campo di costante instabilità per l’individuo, che quindi deve cercare da sé soluzioni al proprio disagio esistenziale. Ueshiba, nella pratica marziale come nell’Omotokyo, è alla ricerca di un soluzione a un conflitto interiore. Proprio Onisaburo Daguchi gli indicherà la strada: la sua missione divina sulla terra è quella di manifestarsi attraverso le arti marziali. L’aikido, dal nostro punto di vista, è anzitutto la sua terapia, una terapia che si propone quella ricomposizione della psiche che egli non ha trovato attraverso le vie tradizionali. Ueshiba afferma più volte, fino alle ultime interviste: “le vie tradizionali, non servono”.  Attraverso l’aikido cerca di realizzare un’arte di depurazione, estraendo dal complesso e composito patrimonio che aveva ricevuto un corpus essenziale, ricavandone non schemi tecnici (eventualmente cristallizzabili in kata) ma principi. L’aikido, quindi, viene proposto dallo stesso Ueshiba come possibilità di percorso di crescita  assolutamente individuale alla luce dei principi fondamentali. Ueshiba non ha mai chiesto ai suoi allievi di riprodurre ciò che praticava lui, anzi spesso diceva: “Non imitatemi ”! Questo sia dal punto di vista delle credenze religiose che da quello tecnico. Rileggendo il suo percorso marziale, più di una volta ha detto: “io ho praticato in maniera insensata” (ad esempio in gioventù allenava dando delle testate nelle pareti o appendendosi ai rami degli alberi), “ho creato l’aikido proprio per evitare che vi alleniate anche voi in maniera insensata”. Per quanto riguarda la pratica religiosa, i suoi allievi –lo stesso figlio e poi il nipote– hanno percorso altre strade (lo shinto tradizionale oppure lo Zen, tra le tante) e lo hanno fatto non in conflitto ma anzi in ossequio alle esortazioni di Ueshiba a cercare individualmente cammini spirituali.
L’idea, da una nostra prospettiva occidentale, è dunque quella cara agli psicologi umanisti della Gestalt, per i quali non è giusto dividere l’esperienza umana nelle sue componenti elementari e occorre invece considerare l’intero come fenomeno sovraordinato rispetto alla somma dei suoi componenti. Quello che noi siamo e sentiamo, il nostro stesso comportamento, sono il risultato di una complessa organizzazione che guida anche i nostri processi di pensiero. Gli eventi che si producono, imprevisti ed incalzanti, hanno a che vedere con una vera e propria ristrutturazione del campo e producono, come effetto finale, il cambiamento di una disposizione nei confronti di se stessi e della realtà, percepiti in maniera radicalmente diversa rispetto a prima; una rivoluzione interna alla quale corrisponde la realtà di sempre, una situazione paradossale nella quale nulla è cambiato e tutto è cambiato. Ueshiba, consapevolmente, rappresenta un perfetto modello di tale possibile cambiamento. La sua personalità ha radici in un mondo medioevale, le cui risposte sono innanzitutto di natura religiosa, ed egli cerca ostinatamente in tale ambito le risposte al suo disagio (disagio –secondo gli psicologi della gestalt- espressione della pulsione di autocompimento); cerca soluzioni nelle regole, nelle tecniche delle arti marziali tradizionali giapponesi ma senza successo. Per questo può dirsi che l’aikido rappresenta una assoluta novità, qualcosa di inedito: un autentica ristrutturazione del campo, perché trasforma l’aggressività non in distruttività ma piuttosto in una relazione pacifica. Uno degli aspetti più tangibili e psicologicamente utili di questa disciplina è qualcosa definibile come principio di reciprocità, che non è, come in altre arti marziali, solamente l’idea di volersi immedesimare nell’altro per poterlo battere. Si tratta di un aspetto pratico: più le tecniche di aikido sono applicate in modo violento verso il colui che attacca e più appaiono scarsamente efficaci, mettendo chi le pratica in condizione di essere a sua volta oggetto di violenza. In altri termini, in una tecnica fatta con cattiveria c’è sempre il germe della controtecnica (gaeshi waza), perché nella relazione intrapresa –sia pure per reazione a un’aggressione– con una volontà di sopraffazione dell’altro c’è il germe della sopraffazione da parte dell’altro. Ciò rende evidente e soprattutto praticabile la radicale scelta della non-violenza che è alla base dell’aikido, che altrimenti resta un orizzonte tanto utopico quanto velleitario. È così che il nucleo forte dell’aikido può essere quello di un’arte in cui l’aggressione e l’aggressività si trasformano una relazione che ha lo scopo ed il senso di far esaurire nell’avversario l’intenzione distruttiva, cioè, trasformare l’aggressività non in distruttività ma piuttosto in una relazione pacifica. Per concludere, vale ancora la pena di insistere su quanto l’atteggiamento creativo di Ueshiba tenda a legare la risposta ineludibilmente individuale con la dimensione collettiva (qualcuno direbbe, cosmica). Credo, ad esempio. che non si sia riflettuto abbastanza sul fatto che solo dopo il coinvolgimento del Giappone nella Seconda Guerra mondiale Ueshiba comincia a chiamare la sua disciplina Aikido, eliminando fin dal nome qualsiasi indizio riconducibile alle arti di combattimento. E ancora, Ueshiba dimostrò l’assoluta fede nei suoi convincimenti di pacificazione universale inviando Koichi Tohei -colui che egli considerava il suo allievo migliore, destinato ad essere il suo successore- ad insegnare proprio negli Stati Uniti, nel paese che aveva umiliato il Giappone, come evidente segno di riconciliazione con il nemico. L’esperienza di Ueshiba non esorta a ripercorrerne l’itinerario spirituale, ma piuttosto indica la necessità ricercarne con impegno uno adeguato ai nostri tempi e alla nostra visione del mondo. La nascita dell’aikido è il risultato di un percorso di “autocompimento “di un individuo che nasce e vive e si nutre di particolari esperienze e suggestioni. L’esempio di Ueshiba è un invito a percorrere singolarmente il proprio personale percorso di crescita, alla luce di principi ritenuti universali oltre che dalla fiducia nella possibilità di compiere un processo di armonizzazione con se stesso e con gli altri. Il percorso psicologico di Ueshiba, retrospettivamente indagabile, è un modello possibile …dei molti possibili.

Augusto Guarino



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