L’Apprendista stregone
L’incontro con la materia aikidoistica conosce numerose difficoltà che si rivelano alcune intrinseche alla sua stessa natura “artistica” altre al metodo ibrido utilizzato dagli insegnanti nel generoso tentativo di voler rendere conto dei suoi aspetti “esotici”, atletici, spirituali ed infine marziali. I primi gradi di apprendimento prevedono l’acquisizione dei movimenti base, delle diverse forme di caduta e di attacco e delle stesse tecniche insegnate ai gradi più alti, anche se, “semplificate, stilizzate nella forma e quasi sempre prive di reale efficacia. Il risultato viene rinviato all’acquisizione di un fantomatico Ki del quale, ad un certo punto, si intravede l’esistenza e la localizzazione in una sorta di insperato, quanto provvidenziale satori… se l’allievo ha la pazienza di aspettare. Non essendo una insegnante, il senso di ciò che dico è quello di testimoniare il punto di vista, l’esperienza ed il disagio dell’allievo sempre in bilico tra l’obbligo di riconoscere, per se stesso, una grave insufficienza atletica o, peggio ancora, una carenza di adeguato equipaggiamento di doti mentali e spirituali. Come dicevo le difficoltà sono soprattutto intrinseche. Si tratta delle stesse difficoltà proprie del processo di conoscenza attraverso l’organizzazione in concetti dei dati della percezione.
Alla percezione dei dati sensoriali segue la formazione di una immagine interna che ha la forma di una “totalità indefinita” come è, ad esempio, un volto a noi familiare del quale, però, non siamo in grado di descrivere il colore degli occhi o la forma del naso.L’immagine interna viene poi tradotta in figura interessando al processo fattori esperienziali, culturali ed anche linguistici. L’immagine interna, credo, possa essere raffrontata a ciò che alcuni autori definiscono “coscienza corporea” esente dal dato mentale. Scrive Cognard: <<Basta rappresentarsi mentalmente la propria azione per diventare vittima dell’attaccante e non potersi sottrarre al suo attacco. Questa rappresentazione mentale si verifica quando la suddetta azione non è integrata dalla coscienza corporea ossia quando non è stata sufficientemente sperimentata.>> Ho detto, più volte, io stessa, che ritengo necessario ed adeguatamente rispettoso, avvicinarsi all’Aikido tenendo presente gli aspetti culturali e spirituali della cultura che lo ha generato ma, usare termini diversi, non significa essere irrispettosi o voler mutare il senso delle cose; non si tratta nemmeno di rinnegare certi passaggi o certi fenomeni ma solo di rendere una idea più vicina alla nostra formazione culturale: rendere una similitudine con il funzionamento del processo conoscitivo, per esempio. Ciò che viene applicato ai dati percettivi sono degli schemi per cui, ad esempio, il concetto di cane denota una regola secondo la quale può essere disegnata la configurazione di un quadrupede senza essere limitati ad un’unica configurazione particolare che mi offre l’esperienza o a ciascuna immagine possibile che io posso in concreto rappresentarmi. La figura di cane nasce dalla immagine interna prodotta dallo schema e poi elaborata sulla base di esperienze e dati culturali soggettivi. La ripetizione delle tecniche conduce alla applicazione spontanea, ma soprattutto immediata, di schemi su un materiale percettivo diversamente variabile ed, in allenamento, volontariamente dosabile ed adeguatamente prevedibile. Viene cosi, demandato al corpo ciò che nel processo conoscitivo viene realizzato dall’intelletto: la applicazione di schemi e la corretta produzione, nel caso del corpo di atti motori, nel caso dell’intelletto, di concetti.
Ritengo che questa stessa similitudine possa essere utile anche a dare all’annosa, quanto difficile questione che risponde al quesito: E’ l’Aikido un’arte? Nel caso dell’immagine un prodotto tanto più si dice artistico quanto più trasmette, conserva e suggerisce elementi e suggestioni appartenenti alla primitiva immagine interna primo, inconsapevole livelli del processo conoscitivo, nel senso più ampio del termine. L’immagine interna è la condizione originaria, l’unica forma in cui è possibile avere esperienza dell’altro, ma essa parla alla coscienza e viene alla coscienza solo figurativamente elaborata e cioè, dopo apporti culturali e linguistici di vario genere. Un prodotto, ritengo, possa dirsi “tecnicamente” artistico tanto più è in grado di rimandare all’immagine interna, senza dover affiorare alla coscienza passando attraverso la fase verbale, linguistica. Ritorno all’aikido. L’allievo dovrebbe sapere fin dall’inizio che l’allenamento ha l’unico scopo di esercitare la coscienza corporea velocizzando l’applicazione e la reminescenza di schemi nativamente posseduti dal corpo. Ueshiba ha più volte detto che tutto dell’Aikido è in superficie e non c’è niente di nascosto. Esiste una crescita progressiva, esattamente come nella acquisizione delle capacità cognitive. Mi permetto di fare un ulteriore volo pindarico tra le diverse discipline: Il Prof. Garroni nel suo libro “L’arte e l’altro dall’arte” mette in guardia contro il pericolo legato alla diffusione, nella nostra cosiddetta “civiltà delle immagini”, di immagini stupide per l’effetto di retroazione che esse possono avere sulle nostre immagini interne, abituandoci ad avere maggiore familiarità con quelle quanto più esse sono in realtà lontane dalla nostra, specificatamente umana, percezione della realtà. Un quadro, con le sue ineffabili suggestioni, dialoga con le nostre immagini interne riscoprendo canali esistenti ma sempre più nascosti dal brusio degli stimoli di vario genere che la “civiltà” moderna comporta. L’allenamento nel tempo consente di riallacciare i contatti con i canali che il nostro corpo ha con lo spazio esterno e con l’altro senza l’intermedio rappresentato dalla concettualizzazione. Come allieva mi permetto di dire che l’espressione: <<tu non devi capire devi fare>> può e deve essere diversamente prospettata ricordando al “principiante” che il corpo impara attraverso i canali della osservazione, della imitazione, della ripetizione; che gli schemi da applicare ci appartengono nativamente e sono gli stessi che rendono conto dell’equilibrio, della distribuzione del peso e del senso della distanza. L’allievo dovrà sapere che il suo percorso ha un senso e soprattutto una direzione che è esattamente inversa rispetto a quella compiuta dal processo conoscitivo da parte dell’intelletto.
Dallo schema di quadrupede al concetto di cane, dalle diverse forme delle tecniche al principio base. Lo scopo di ciò che ho scritto è, da una parte, rassicurare chi comincia ora a praticare aikido, che non ci sono virtù magiche da acquisire ma solo un percorso, lo stesso che, senza traumi ed eccessive lacerazioni interne, porta l’alunno delle scuole medie a rimandare il calcolo infinitesimale ai tempi dell’università, dall’altro, quello di invitare gli insegnanti a rinunciare a quella porzione di fascino che deriva dal possesso di nozioni e capacità inafferrabili, ma a far riferimento a pochi semplici principi che già ci appartengono in quanto esseri naturali…
Angela D’Alessandro
Articolo bello impegnativo, che mette sul tappeto uno dei problemi più spinosi: quale è il tipo di consapevolezza che il praticante deve avere? Prevalentemente visiva? Prevalentemente concettuale? Prevalentemente razionale? Prevalentemente intuitiva? Vi è una possibile -e auspicabile- traiettoria da un livello all’altro? L’acquisizione va guidata o bisogna lasciarla allo spontaneo apprendimento?
Personalmente, non essendo un istruttore ma un semplice praticante, non mi sono mai dato delle risposte. Lascio che l’esperienza abbia un’azione su di me, e talvolta mi soffermo ad osservarla. Però è bello e importante, come ha fatto Angela, soffermarsi ogni tanto a riflettere. E capisco anche che chi ha responsabilità da insegnante si debba porre il problema.
Grazie, Angela e Buon Natale a tutti.
Sono io che ringrazio te Augusto, anche perchè il tuo commento mi da lo spunto per fare delle precisazioni doverose nei confronti del mio insegnante, riferite a certe mie considerazioni sulla didattica. Queste mie considerazioni erano relative alla mia esperienza passata di allieva, nell’ambito dell’Aikikai, durata circa 15 anni. La scuola dell’Aikikai ha un impianto fortemente strutturato e piramidale ( non credo di far torto a nessuno poichè io mi limito ad esporre la mia esperienza personale ed ho la tranquillità di considerare che essa, come tutto ciò che ha i connotati della soggettività, non può rivendicare alcuna pretesa di universalità e verità) ed all’interno di essa questa sorta di costruzione a livelli viene avvertita come un fatto costitutivo, vitale della associazione stessa. Probabilmente è questa la ragione per la quale non esiste all’interno dell’Aikikai alcuna forma di ricerca: i vertici giapponesi ovviamente non consentono alcuna forma di riflessione e di innovazione didattica che non provenga dall’alto, ed è per questo che l’insegnamento viene svolto davvero per gradi: le verità ultime sono per i gradi avanzati….della serie capirai in appresso. Non credo di essere stata un’allieva particolarmente brillante e non lo sono tuttora, ma almeno adesso mi risparmio la sofferenza ed il gelo che deriva dal non poter-dover capire. Oggi vivo un ambiente di assoluta condivisione, dei problemi, dei dubbi, della riflessione, della ricerca. Il mio insegnante non sortisce un insegnamento differenziato a seconda del grado e della diversa vocazione-abilità dell’allievo, tutto è finalizzato alla acquisizione di una risposta spontanea, nel rispetto dei principi e delle peculiarità della disciplina Aikido. Non voglio demonizzare gli insegnanti aikikai, è la stessa struttura della associazione che probabilmente li conduce ad un certo tipo di didattica, ad un certo tipo di pratica, da librettino d’esami e non certo da “circostanza sfortunata”…magari di strada. Auguri per il nuovo anno.
Cara Angela, solo dopo avere “postato” il commento mi sono reso conto che si trattava di un articolo di un paio d’anni fa. Poco male: è ancora attuale, perché va al cuore dei problemi.
Io non credo che sia una problema di “federazioni”. Certo, alcune associazioni danno un’impostazione un po’ più fideistica (tipo, “il nostro è il vero aikido, “la nostra è la migliore tradizione”, ecc.), ma credo che in tutte le associazioni ci sono persone sensate e inquiete, che cercano di andare alla radice delle cose. Piuttosto, mi sembra che il problema sia che abbiamo tralasciato una cosa che ai giapponesi -anche tradizionalmente- era molto presente, e cioé che nell’apprendimento una parte importante la fa certo il maestro ma l’altra parte (la metà?) la fa l’allievo. Tanto più se è un allievo avanzato. A volte noi vorremmo che il maestro risolvesse tutti i nostri problemi. Non solo nell’aikido, anche nelle altre arti marziali, nella scuola, nell’università, nella vita. Invece una bella fetta di responsabilità è nostra. Il ruolo del maestro è forse proprio quello di farci capire quali sono le nostre responsabilità.
Uno splendido 2011 di pratica, felicità e soddisfazione, ad Angela e a tutti!
Augusto