La fine dei samurai
L’apertura del Giappone
Il mattino dell’otto luglio 1853 i guardiacoste giapponesi della baia di Uraga scorsero delle navi che si avvicinavano; erano due fregate da guerra nordamericane a vapore con seicento uomini a bordo. Ci fu il panico. Il popolo affollò i templi per invocare l’aiuto degli dèi, lo shogun Ieyoshi convocò dopo decenni i daimyo. Si inviarono delegati alle navi. Il comandante, il commodoro M.C. Perry, chiese e ottenne il permesso di sbarco portando doni e un messaggio del presidente americano Millard Fillmore allo shogun. Un aiutante di Perry scrisse nel suo diario: «Giornata memorabile poiche si è finalmente riusciti a introdurre la chiave nella serratura». Consegnato il messaggio con cui si chiedeva l’apertura di porti alle navi americane e un trattato commerciale, Perry si ritirò. Il vecchio impero insorse; daimyo e samurai ripresero le poche armi a disposizione, ma tutto ciò non valse a salvare il Giappone dall’arrivo degli occidentali; Perry tornò infatti con dieci navi edu e mila uomini, ma lo shogun Ie sada e i daimyo erano ancora riuniti in consiglio e non erano riusciti a mettersi d’accordo sulla risposta. Il 13 febbraio 1854 lo shogun firmava sbigottito un trattato di commercio con gli Stati Uniti. La porta del Giappone era aperta con i porti di Nagasaki, Hakodate, Shimoda. Nel 1856 il ministro plenipotenziario americano Towsend Harris chiede l’apertura di dieci porti al commercio americano. Lo shogun diede alla corte imperiale la responsabilità della risposta. Sono i sintomi che la decadenza shogunale è arrivata al suo epilogo. Varie erano le cause che da tempo minavano alla base la struttura eretta da Ieyasu; le discordie tra le grandi famiglie, il malcontento di tutte le classi sociali irrigidite nei loro schemi, la rinascita dei princìpi scintoisti che proclamavano il ritorno all’autorità imperiale e infine l’ingerenza straniera. L’imperatore del momento, Komei (1847-67) si mostrò contrario all’accettazione degli stranieri e lo shogun cercò dapprima scampo in una dilazione, poi firmò il trattato per l’apertura dei porti (1858). A questo punto l’imperatore disconosce i trattati firmati dallo shogun ed emette l’editto di ‘espulsione dei barbari, jò-i. I daimyo vedono nel comportamento dello shogun Iemochi (1846-66) uno strappo alle tradizioni patrie e lo isolano. Iemochi a questo punto tenta di tutto per riprendere potere fra i suoi daimyo, ma ormai risulta impossibile riaffermare il prestigio dello shogunato. I suoi samurai appoggiano la corte imperiale che ordina a Iemochi di marciare contro i barbari così come prevedeva il titolo di shogun. Intanto dal suo castello lungo la costa il daimyo di Choshii, Mori Motonori, faceva fuoco sulle navi americane, francesi e olandesi e sconfiggeva le forze che lo shogun aveva inviato contro di lui. L ‘imperatore frattanto moriva come pure lo shogun Iemochi, mentre le flotte francese e inglese distruggono i forti di Shimonoseki (1864). In questo momento il potere feudo-militare passava a sostenere di nuovo la figura imperiale. La classe militare che aveva dominato per secoli il Giappone aveva decretato da sola la sua fine. Furono i daimyo di Satsuma Choshii, Hizen, Tosa, con il loro memoriale a chiedere all’imperatore di riassumere il comando del paese, come era sempre stato stabilito dalla tradizione giapponese. L’ultimo shogun, Tokugawa Yoshinobu, presentò le dimissioni al sovrano, ma i suoi samurai si ribellarono (1867) e mossero verso Kyoto per cercare di restaurare il potere del loro shogun. Sconfitti dalle truppe imperiali a Kyoto, a Toba e a Fushimi, continuarono a combattere anche se ridotti in pochi nel Nord del paese. Queste opposizioni locali non arrestarono comunque gli eventi, tanto che nel 1868 i principi feudali rassegnavano nelle mani imperiali le loro cariche e veniva proclamata la Restaurazione Meiji, il Governo Illuminato. Le navi americane, russe, francesi, inglesi, olandesi, che avevano strappato all’impero del Sol Levante le concessioni commerciali, portavano uomini che capivano ben poco della civiltà giapponese. Scriveva infatti un diplomatico inglese: «Il Giappone è un formicaio di isole che si stendono all’est, abitate, a quanto dicono, da una razza grottesca e selvaggia». In questo modo iniziava la storia del Giappone moderno. Un popolo che per secoli era rimasto chiuso nel suo isolamento, veniva improvvisamente costretto ad aprirsi ai commerci con le potenze occidentali. Il vecchio impero feudale, già traballante, andò in pezzi, ma quasi istantaneamente dalle sue rovine nacque una società nuova. Un popolo, irrigidito da secoli di rigore feudale, si trasforma coraggiosamente in uno Stato moderno. Si è messo a osservare, studiare, imitare, adattare; in cinquant’anni ha bruciato le tappe che l’Europa aveva superato in due secoli di duro cammino. Favorito infatti dalla posizione geografica, atta al commercio, ma soprattutto dalle energie e dalla disciplina del suo popolo, questo paese di contadini e pescatori è diventato nell’arco di cinquant’anni una potenza industriale. Le importazioni occidentali hanno determinato una radicale trasformazione politica, economica, industriale, sociale, culturale. Ma era veramente possibile trasformare nel profondo un intero popolo? Il Giappone si trovò di fronte a nuove idee che asserivano come la scienza era l’unica religione possibile, mentre ogni forma di spiritualità era soltanto il prodotto di circonvoluzioni cerebrali. La fede nei kami venne forse incrinata ma non fu mai sostituita da un’altra fede. Nella massa del popolo infatti le antiche credenze religioso-civili continuarono a sopravvivere per cui il culto imperiale fu ripristinato, ma anche l’etica tradizionale scintoista e quella buddista mantennero le loro prerogative in un mondo che si stava trasformando. Se lo scintoismo conobbe un revival con la caduta del potere shogunale e la proclamazione dell’autorità divina dell’imperatore, tanto da trasformarsi in uno scintoismo di Stato, l’antico codice dei samurai con le sue prerogative venne adattato alle mutate esigenze e determinò molti dei comportamenti della nuova società.
I nuovi samurai
Il movimento che doveva sciogliere il Giappone da secoli di vincoli militari che ne avevano determinato ogni decisione fu opera di pochi samurai, daimyo di Satsuma, Choshii, Hizen e Tosa. Pochi di loro superavano i trent’anni, ma dimostrarono di saper compiere per il loro paese assieme alloro shogun un atto gran-dioso, forse superiore all’eroico seppuku. Anche se le dimissioni dello shogun furono umilianti, tanto da suscitare la reazione degli antichi samurai che lo sostenevano, tuttavia gli eventi erano maturi per una radicale trasformazione. Tokyo diventa la capitale orientale in antitesi a Kyoto, quella occidentale; vengono aboliti i feudi (1871) e tutto il territorio è diviso in dipartimenti che contribuivano con un contingente di forze all’esercito nazionale. Molti degli antichi samurai diventavano soldati del nuovo Giappone. La classe che per secoli era stata la prima per la nobiltà che dava ad essa la spada, accettò di arruolarsi a fianco del popolo. Ma quando un’altra legge (1876) interdì ai samurai l’uso del simbolo più caro, la spada, scoppiarono rivolte a Kumamoto e Hagi. Un gruppo di samurai, dopo aver ucciso circa trecento guardie del castello, fece hara-kiri pur di non vedersi privati della loro spada. L’avvenimento ebbe un eco a Satsuma dove trentamila uomini, armati con le antiche spade e le armi moderne, decisero di restaurare la classe militare. Erano comandati da Saigo Takamori, uno dei fautori della restaurazione. Settantaseimila soldati imperiali combatterono contro gli insorti e li sconfissero (1877). Ma i samurai seppero finire eroicamente il loro lungo dominio. Saigo Takamori, ferito a una gamba ordinò a un suo fido di tagliargli la testa, mentre i suoi compagni morirono combattendo o si uccisero piuttosto che arrendersi. Iniziavano ora le lotte per un nuovo tipo di potere. Il governo era infatti nelle mani di una stretta oligarchia formata dai due ex-daimy6 di Satsuma e Choshii. Le antiche lotte feudali, non sopite, tornavano sotto nuova forma. Il Giappone feudale si riaffacciava nella lotta non più per una provincia o un castello, ma per un Ministero o una Presidenza, non più sui campi di battaglia ma sulle colonne di giornali. Il Giappone dei samurai e del bushido, il paese delle due spade, continuava a esistere anche nel nuovo Giappone. L’imperatore Meiji nel 1890 scriveva alla nazione: aumentate il bene pubblico e promuovete la prosperità e il benessere di tutti; abbiate sempre in onore la costituzione e osservate le leggi dell’impero; se la necessità lo richiede, offrite coraggiosamente la vostra vita per il bene della patria. Era stato il senso di inutilità e la perdita del prestigio, che aveva minato i rapporti di fedeltà e lealtà che legavano i samurai al loro superiore, a spingere la classe dei samurai a prendere parte attiva ai cambiamenti del loro paese. Quando infatti il governo militare non fu più in grado di controllare la situazione, le corporazioni dei samurai, rispettando il loro senso del dovere, giri, proclamarono la necessità di ripristinare un interesse nazionale contro quello del bakufu. Infatti, se il samurai era finito come figura storica, rimaneva ancora vivo il suo spiccato senso del dovere, che si volgeva ora al bene della nazione. Fu così che gli ideali dei samurai continuarono a esercitare una grande influenza nella storia del paese. Abolito il feudalesimo dalle riforme Meiji e aboliti così anche i loro stipendi, i samurai per breve tempo vissero da pensionati. Quando poi, nel 1874, queste furono liquidate con una somma forfettaria, i samurai vennero esortati a trasformarsi in imprenditori commerciali e industriali. Le antiche abitudini all’obbedienza fecero in modo che la classe dei samurai, grazie agli incentivi economici e alla liquidità derivante dalla capitalizzazione delle pensioni, si trasformasse in una moderna classe imprenditoriale. La grande imprenditoria giapponese non provenne, quindi, dai vecchi mercanti o usurai dell’epoca Tokugawa, ma da quei samurai che a questa trasformazione si adattarono perchè tale era il volere dell’imperatore.
I samurai divenuti imprenditori trasferirono nella nuova attività gli usi e i costumi caratteristici della loro classe, contribuendo così a formare quelle particolari relazioni industriali di mercato del lavoro che caratterizzano la civiltà giapponese e ne fanno un unicum nel mondo. La mentalità del samurai quindi, non solo ha resistito ai cambiamenti, ma si è trasferita nei rapporti interpersonali delle organizzazioni giapponesi, nelle relazioni industriali e in quelle di ogni settore lavorativo. Per questo si parla spesso di una “samuraizzazione” del lavoratore giapponese, in quanto ogni dipendente tende a comportarsi, con il suo datore di lavoro, come il samurai si comportava nei confronti del daimyo, con rispetto stretto della gerarchia e assoluta fedeltà all’azienda. Così come si erano formati i clan guerrieri, i samurai si trasformarono in una nuova classe dirigente che passò alla guida della nazione e fece in modo che gli antichi valori del bushido venissero trasmessi alle nuove classi del paese. I concetti di sottomissione, lealtà, obbedienza, che legavano il samurai al signore si trasformano nella devozione dei funzionari verso il governo e verso le industrie. Lo spirito degli antichi guerrieri permeava ormai tutti gli strati della popolazione che aveva ereditato quei valori che per secoli erano stati la prerogativa dei samurai. L ‘antico rapporto samurai-signore si è quindi trasformato ed applicato all’odierna produttività del mondo industriale e finanziario dove il datore di lavoro mantiene molte delle caratteristiche del signore feudale, mentre i dipendenti mostrano la stessa devozione ed obbedienza tipica dei samurai. Come scrive Maraini: «n Giappone si è modemizzato ma poco occidentalizzato. Ha indubbiamente assorbito dall’Occidente tecnologie e procedimenti operativi, ma il suo sostrato tradizionale non ha perso la propria identità». L’animo del moderno giapponese rispecchia infatti ancora oggi nei princìpi basilari dell’attuale società il rispetto per il proprio passato e la propria tradizione che nessun influsso occidentale potrà annullare.Persino l’antico scintoismo con la sua filosofia vitalistica, si trasforma nell’aggressività industriale e commerciale, nella frenesia produttiva che contraddistinguono il Giappone moderno. Il lavoro viene infatti concepito dal giapponese come l’estrinsecarsi della propria abilità, per cui il lavoro è “la cosa da fare” e il successo ottenuto in questo campo non è altro che la testimonianza di un benefico influsso dei kami, che premiano l’operato dell’uomo ligio al suo dovere. n vecchio concetto di giri, che per il samurai implicava la devozione e lealtà al signore, oggi è diventato la somma dei doveri di un uomo verso la società. Se un individuo non riesce nel proprio lavoro, fallisce nei suoi doveri verso la famiglia, verso il suo superiore, verso il suo paese. Ed è proprio su questo senso del dovere che si basano le industrie e tutto il sistema lavorativo del Giappone. Il culto del gruppo e della comunità, che è stato anticamente rafforzato dal clan dei samurai, continua a essere al centro di ogni attività giapponese per cui il concetto di privato, kojin, sconfina quasi con l’egoismo. Anche il concetto di posizione personale nella società, mibun, ricorda le antiche stratificazioni sociali che erano determinate dalla nascita e che ancora oggi sono fortemente sentite nella società. Là stessa etica dei samurai, difficile da seguire perché implicava il mantenimento di un equilibrio che poteva facilmente sconfinare nell’arroganza e nell’ingiustizia, oggi sembra ricomparire nei difficili equilibri politico-finanziari del moderno Giappone. Il concetto di umiliazione, che per il samurai significava perdita dell’onore, nel Giappone moderno si è trasformato nell’estrema sensibilità del giapponese verso tutto ciò che può sembrare una critica al suo operato. Criticare il lavoro del singolo comporta una svalutazione dell’intero gruppo di appartenenza per cui l’umiliazione personale viene trasmessa automaticamente dal singolo al gruppo di lavoro, alla sua professionalità. Anche il controllo delle proprie emozioni, che tra i samurai arrivava a livelli estremi con il seppuku, è ancora un fattore dominante nel Giappone odierno in quanto un buon autocontrollo permette di ottenere risultati sempre positivi e quindi è indice di una maggiore efficienza. Esistono quindi molti modi per far rivivere lo spirito dei samurai, ma in effetti si tratta di uno spirito che nella realtà non è mai scomparso dall’animo di ogni giapponese e ha permesso al loro paese di portare avanti con tenacia e persistenza i più ardui obiettivi. Se la mentalità dell’uomo giapponese non fosse stata abituata da secoli di dominio militare a obbedire, a rispettare le decisioni superiori, a vivere e operare per la collettività a scapito della propria individualità, il Giappone non avrebbe ottenuto i risultati che ha raggiunto nell’ambito mondiale. Oggi ogni buon cittadino giapponese, come l’antico samurai, si sente obbligato verso la famiglia, verso l’azienda, verso lo Stato per i molti benefici che ne riceve, per cui si adopera al suo meglio nell’adempimento dei propri doveri coltivando quei sentimenti di fedeltà, onore, rispetto, lealtà che formavano il codice d’onore della più famosa classe guerriera del mondo, quella dei samurai. Sotto la vernice occidentale il Giappone continua a mantenere quindi molte delle caratteristiche che lo hanno contraddistinto nei tempi più remoti. Il samurai fa parte indubbiamente del suo passato e la figura del guerriero leale e coraggioso ha ben rappresentato il Giappone in tutto il mondo, tanto che ancora oggi il termine richiama alla mente le immagini di combattenti fieri e silenziosi, pronti a tutto in nome della fedeltà e dell’onore. Abili nelle armi e nella lotta, essi furono gli artefici di molte delle arti marziali che ancora oggi trovano tanti discepoli anche in Occidente. Combattevano in nome dell’obbedienza al superiore per il quale non esitavano a sacrificare la propria vita, considerata di poca importanza se paragonata alla perdita dell’onore. Diffusero le tecniche della meditazione che avevano appreso dai monaci zen e insegnarono come la forza fisica non ha alcun valore se non viene unita con quella psichica dell’individuo. Gli antichi guerrieri, la cui classe si era venuta formando nel IX-X secolo, dopo essere stati al potere per circa otto secoli, restituiscono il comando al discendente della dea Amaterasu e si trasformano in soldati dell’esercito e in leader industriali. Perciò nessuno studio sul Giappone moderno può prescindere dall’esame di questa figura che è stata una componente fondamentale per il paese.
di Alida Alabiso
tratto da “I Samurai” ed. Il Sapere