Il kata
Chi pratica arti marziali sa bene, in generale, cosa sia un kata: è quella forma, quello schema motorio fissato in anticipo, che consente sostanzialmente di esercitarsi ed apprendere una tecnica o un insieme di tecniche di attacco e/o di difesa. Esistono kata elementari, per l’apprendimento iniziale, e kata via via più complessi e anche più difficili da memorizzare. Esistono kata fondamentali e kata opzionali. O qualcosa di simile. Le differenti discipline marzialistiche, quindi, si distinguono in base al corpus di kata che viene di volta in volta tramandato. È qualcosa di molto simile alle diverse leggi che vengono tramandate nello studio delle diverse branche della scienza: le leggi e gli esperimenti di Archimede, Galileo, Newton, etc. in fisica, per esempio, o quelle di Mendeleev o di Lavoisier in chimica. Da un punto di vista didattico è qualcosa di molto simile ai moduli attraverso cui, a scuola, studiamo i diversi aspetti di questa o quella scienza.
Tutto sommato questa visione del kata non è per nulla sbagliata. Tuttavia, a mio avviso, rischiamo di incorrere in una serie infinita di equivoci, soprattutto se ci limitiamo ad una semplice “traduzione” di elementi culturali giapponesi in quelli occidentali. Il rischio principale è di farsi abbagliare dal dito che indica, perdendo di vista ciò che viene indicato. Tale rischio, beninteso, è corso spesso dagli stessi Giapponesi, nella pratica delle arti marziali così come nello studio di un qualunque kata, che finisce col diventare lo scopo ultimo dello studio, senza rendersi conto che si tratta sempre solo di un mezzo di apprendimento. Tuttavia, per noi Occidentali, il rischio è maggiore, poiché ci troviamo di fronte a concetti che ci risultano estranei e non immediatamente comprensibili: molto spesso, nello studio di un’arte orientale (che sia marziale o meno), ci occorrono anni anche solo per capire cosa esattamente stiamo studiando, proprio perché non abbiamo i riferimenti culturali necessari ad intendere immediatamente certi concetti.
Uno dei fraintendimenti principali che sorgono quando si tratta di discipline orientali, soprattutto di quelle che affondano le radici nel terreno della spiritualità zen, nasce spesso da una disposizione d’animo assolutamente favorevole e tanto più, quindi, difficile da sradicare, perché frutto delle migliori intenzioni. Noi Occidentali, infatti, ci sforziamo di penetrare in una sfera che ci appare misteriosa e affascinante ma che continuamente ci sfugge e finiamo col conferire un eccessivo misticismo a concetti e parole chiave che spesso fanno parte del linguaggio comune giapponese. Ad esempio, non troviamo nulla di particolarmente mistico in un’espressione romantica come il “genio poetico” o la necessaria “ispirazione” dell’artista. Questo non vuol dire che la creazione artistica, anche in Occidente, non sia ammantata da un’aura mistica e quasi religiosa: semplicemente, sappiamo di usare tali termini, nel linguaggio comune, in accezioni molto spesso sfumate, “normali”, senza ricercarvi un particolare mistero da penetrare. Viceversa, quando sentiamo la parola ki, subito vi ricerchiamo un particolare significato mistico, quasi che dovessimo scoprire un fluido magico che pervade il corpo del guerriero zen e di cui sarebbe privo il povero contadino. Perdiamo così di vista il senso delle cose e cadiamo, proprio noi razionalisti e tecnici Occidentali: dalla mistica e dalla spiritualità alla più gretta superstizione. Forse, questa incapacità di comprendere con lo “spirito” giusto la spiritualità zen, è radicata nel fatto che l’Occidente ha creduto giusto separare in maniera tanto netta diverse sfere del sapere e della vita, cosicché tutto ciò che non è perfettamente logico come un calcolo matematico cade fuori dalla scienza e tutto ciò che ha già un sapore di metafisica e di spiritualità rientra nella magia e nella superstizione. E così non facciamo altro che guardare all’Oriente come al nostro inconscio represso, scorgendovi subito misteri, incantesimi, magie e occulte forze spirituali.
L’esigenza di questa riflessione sul kata mi è sorta durante lo studio della poesia giapponese. Ho sempre dato per scontato che questa parola fosse un termine tecnico delle arti marziali come lo Judō, il Karate, il Kendō e, non ultimo, l’Aikidō (in Aikidō si studiano solo kata perché non c’è agonismo, a quanto ho sempre sentito dire). In realtà, kata è una parola che si ritrova in tutte le discipline giapponesi ed in particolare nei dō, e finanche nel teatro e nella poesia. D’accordo: se indica le tecniche di una disciplina, è normale che si ritrovi nell’insegnamento di tutte le discipline. Ma nella cerimonia del tè? Nel teatro nō? In poesia? Che tecniche indicherebbero i kata di queste forme artistiche (posto che di forme artistiche si tratti)? Davvero possiamo riferirci al kata come a una tecnica? E davvero l’essenziale della cerimonia del tè sarebbe in un insieme di tecniche?
Il kanji del kata è 型: tale ideogramma è un composto fono-semantico in cui il kanji 刑 (che indica punizione, legge) è usato in funzione fonetica e il kanji 土 (che indica “terreno”, “suolo”) ha un valore puramente semantico. Quindi il senso più generico di kata è una forma radicata, una sorta di norma che fa da terreno comune, un fondamento stabile su cui, evidentemente, si costruisce il percorso di un dō. Il terreno indicato dal kata è quello della tradizione, l’insieme di norme, comportamenti, esempi che ci vengono tramandati dal passato, dagli antichi maestri e che, per definizione, non è “inventato” da nessuno: è il terreno comune, la base della pratica, tramandata di generazione in generazione. Nessuno può inventare un kata, altrimenti semplicemente non si tratta di un kata: questo fatto è cruciale, per capire di cosa stiamo parlando.
Nel teatro nō, il kata è tutto: esistono movimenti precisi, passaggi precisi, precise maschere, personaggi, frasi. Tutto è stabilito attraverso un insieme cospicuo di kata che nessun autore di opere nō si sognerebbe di modificare. Questo non vuol dire che si debbano eseguire sempre gli stessi spettacoli e nemmeno che i kata debbano essere eseguiti sempre allo stesso modo, come cinquecento anni fa. Il teatro nō fu praticamente fondato nel Trecento da Kan’ami Kiyotsugu e da suo figlio Zeami Motokiyo (a tutt’oggi il più prolifico autore di testi teatrali, con oltre duecento opere): ma anch’essi non fecero altro che sistemare la materia teatrale del passato e organizzare i kata, fondando quindi il nō attraverso una struttura che individuasse quella peculiare tradizione. Da allora ad oggi il teatro nō si è tramandato attraverso l’insegnamento di generazioni e generazioni di maestri, autori, attori che a poco a poco hanno introdotto nuovi kata, modificato i preesistenti, affinandoli o arricchendoli, eliminato altri. E tuttavia nessuno può dirsi “inventore” di questo o quel kata, nemmeno Kan’ami o Zeami.
Questo stesso discorso vale in poesia: la poesia giapponese, infatti, a differenza di quella occidentale, non è fatta da grandi “geni”, individui particolari che da soli cambiano ogni anno le regole, “sconvolgono” la tradizione ogni dieci anni e finiscono soltanto col creare mode passeggere, credendo di essere unici e perseguendo l’immortalità. La poesia giapponese, come ogni forma d’arte giapponese, affonda le sue radici nei kata della tradizione e il singolo poeta è tanto più grande quanto più sa farsi da parte e diventare uno strumento affinché la tradizione si attualizzi in questo o quello scritto. Per questo la rana di Bashō è a ragione diventata l’emblema della più elevata forma di poesia giapponese: perché quell’immagine non è l’espressione dell’io di Bashō, né di quella particolare rana, né di quello stagno; ma in quel tonfo nell’acqua confluisce tutta la poesia giapponese e tutto il senso dell’illuminazione zen. Bashō, propriamente, non ha “inventato” niente. La poesia giapponese ha il sapore di un’arte combinatoria che mescola tra loro elementi fissi: kigo, kireji, makura-kotoba, ecc., cioè parole, espressioni come “luna velata”, “la montagna dove si trascinano i piedi”, “prime piogge” che sono state fissate dalla tradizione e che vengono inserite ancor oggi immutate. Scrivere una poesia vuol dire quindi sostanzialmente mettere insieme tra loro questi elementi, creare un’armonia particolare, sviluppare immagini originali a partire da elementi tradizionali. Il poeta giapponese non cerca di distinguersi per inventiva e originalità, piuttosto la sua originalità è data dalla capacità di conferire sfumature nuove alle vecchie immagini.
Ma questo stesso discorso vale in ogni forma d’arte e tanto più dovrebbe valere nelle arti marziali: Ueshiba non ha, in senso stretto, inventato nulla. Ha organizzato una tradizione, selezionando un insieme di kata e trasmettendolo nella sua scuola. Ha così fondato l’Aikidō, proprio come Kan’ami fondò a suo tempo il teatro nō e Bashō la poesia moderna. Ha fondato, non inventato!
Ora, vale per i kata quello che vale per la tradizione culinaria di un popolo: non c’è nessuno che possa vantare un brevetto sulla pasta e patate o sulla pastiera. La ricetta della pasta e patate, per dire, è quindi a tutti gli effetti un kata: un insieme di norme tramandate dalla tradizione che consente di fare un buon piatto. Ma questo non vuol dire che per fare la pasta e patate uno debba per forza avere la ricetta contenuta ne La cucina napoletana di Francesconi! E, del resto, si sa, ogni famiglia ha la sua pasta e patate: chi ci mette la provola e chi no, chi fa soffriggere il sedano e chi invece il sedano non lo digerisce. Ovviamente la vera pasta e patate è quella che faceva mia nonna. La “mia nonna” di ognuno, s’intende. Si può divorziare, per colpa di una pasta e patate! Tuttavia, sappiamo altrettanto bene, che la pasta e patate resta pasta e patate in ogni caso: si può preferire una variante piuttosto che un’altra e ovviamente si può ritenere che la pasta e patate sia semplicemente immangiabile. De gustibus disputandum non est. Tuttavia, nessuno si sognerebbe di discutere sulla cucina napoletana e nessuno metterebbe in dubbio che la pasta e patate, pur nelle sue varianti, è un piatto di cucina napoletana. Lo “spirito” della cucina napoletana, in fondo, non sta nella pasta e patate. E nessuno può definirsi un buon cuoco se sa preparare una perfetta pasta e patate ma nient’altro. Si può certo iniziare a lavorare in cucina, preparando per mesi o anni sempre solo le verdure per il soffritto ma, attraverso l’esecuzione di questo semplice kata (perché di un kata si tratta) si acquisisce gradualmente una padronanza degli elementi di base della cucina ed è quella padronanza a formare un buon cuoco, a prescindere poi dal piatto che si dovrà preparare. Allora, quando si saranno appresi i segreti del mestiere, si potrà anche decidere di “decostruire” la pasta e patate. Saper cucinare vuol dire, in fondo, saper fare in modo che i sapori si sposino bene tra loro. A prescindere da ricette e ingredienti.
Tanto più Nell’Aikidō dovrebbe valere questo discorso, proprio perché la via indicata qui è quella dell’armonia: è la sapienza che armonizza una relazione, ancorché una relazione violenta. Saper eseguire alla perfezione questo o quel kata equivale a saper eseguire alla perfezione questo o quel piatto di pasta. Fissarsi su questa o quella variante di ikkyo equivale a fissarsi su questa o quella variante della pasta e patate. Nessuno può dirsi aikidōka se sa eseguire solo un insieme di kata, così come nessuno può dirsi cuoco se sa preparare solo i piatti contenuti nel suo ricettario. Il ricettario, come l’insieme dei kata, è solo un terreno comune, che ci consente di apprendere, poco alla volta, i segreti di una tradizione. Apprendere i segreti di una tradizione vuol dire saper padroneggiare l’arte che quella tradizione veicola: sicuramente ognuno avrà poi i suoi punti di forza e le sue debolezze (quel cuoco può essere particolarmente bravo nei primi piuttosto che nei secondi, quell’altro può avere una ricetta segreta che lo ha reso famoso) ma in ogni caso siamo tutti d’accordo sul fatto che saper cucinare non vuol dire eseguire una ricetta piuttosto che un’altra. E questo vale in ogni arte: si possono prediligere i paesaggi anziché i ritratti, ma il segreto della pittura non sta né negli uni né negli altri, bensì in una padronanza della tecnica che ne faccia emergere quel qualcosa di mistico per cui di fronte a un’opera d’arte possiamo arrivare a commuoverci.
Bashō insegnava:
Nell’arte del maestro c’è ciò che rappresenta “l’invariabile per diecimila generazioni” [bandai fueki] e ciò che rappresenta “il mutamento momentaneo” [ichiji no henka, ovvero: ichiji ryūkō]. I due estremi hanno un’unica base, rappresentata dalla verità dell’arte. Se non si comprende l’invariabile, non si può capire veramente l’arte. L’invariabile non dipende da quanto ci sia di vecchio o di nuovo, né dal mutamento, né dalla moda, ma è un aspetto fondato sul vero dell’arte. […] È però naturale che tutto muti e in modi diversi. Se l’arte non muta non si rinnova nemmeno il suo stile. Se lo stile non si trasforma, esprime semplicemente una forma temporanea, di moda, priva di ricerca del vero dell’arte. […] Chi è alla ricerca, invece, non potrà mai essere fermo in un punto ma procederà, di passo in passo, in modo naturale. In futuro l’arte dell’haikai subirà mille mutamenti, ma i cambiamenti veri apparterranno sempre all’arte del maestro. Il maestro disse in proposito: «Non leccate mai la bava degli antichi. Tutto si rinnova nel modo in cui si evolvono le quattro stagioni».
(da Hattori Dohō, Sanzoshi)
Fermarsi ai kata, senza rinnovarli nella propria pratica, attraverso la diretta partecipazione di tutto il proprio essere, e quindi rendendoli adatti al momento presente, equivale a null’altro che a leccare la bava degli antichi.
Viviamo in Occidente in una sorta di schizofrenia, per cui da un lato guardiamo con sospetto a tutto ciò che non è afferrabile logicamente e dall’altro ci buttiamo a capofitto in forme di superstizione che ci fanno accogliere un singolo kata come un portone per l’illuminazione. Dovremmo forse riequilibrare l’aspetto razionale con quello spirituale, la “mente” e il “corpo”, se vogliamo vivificare la tradizione attraverso una pratica che affonda i piedi nella nostra realtà quotidiana. Trovare il senso più intimo di ciò che facciamo. Eseguire kata in maniera pedissequa può accecare, come ogni forma di onanismo mentale.
A mio avviso, giungiamo necessariamente a queste conclusioni se guardiamo al kata nella sua essenza. “Nella sua essenza” vuol dire: se lasciamo essere la cosa stessa ciò che è e ci lasciamo guidare da essa nella comprensione. Questo è per me il senso del principio confuciano del rettificare i nomi. Se accogliamo senza riserve una terminologia più o meno “tecnica”, come quella di un’arte marziale, senza cogliere l’essenza di un termine, ci stiamo decidendo per una fuoriuscita di noi stessi dalle cose che facciamo: come i pappagalli, parliamo senza sapere ciò che diciamo. Così, se imitiamo i kata dei nostri maestri, ci decidiamo per un apprendimento da circo, preferendo essere ammaestrati come scimmie, piuttosto che praticare l’aikidō. Un maestro zen disse una volta che, se il segreto dell’illuminazione fosse nello zazen, la rana sarebbe già illuminata.
Diego Rossi
A parer mio quando si parla di padronanza delle tecniche, si deve intendere come la padronanza di sé stessi, la padronanza del proprio corpo nell’esecuzione delle tecniche, e ciò porterebbe alla maestria. Però,prima di arrivare alla maestria, per essere padroni di sé stessi bisogna acquisire abilità attraverso l’autodisciplina come diceva Bruce Le.L’autodisciplina consiste nell’essere calmi, pazienti, perfettamente in sintonia con sé stessi, cioè pienamente consapevoli di ciò che si sta compiendo sia durante una forma o kata sia durante una tecnica. Autodisciplinarsi, sempre secondo me, vuol dire anche: seguire un regime alimentare ben determinato; regolamentare in una serie di sequenze ben precise ,appunto i kata, l’allenamento giornaliero, quasi ritualizzarlo, in modo da innescare un meccanismo di cambiamento o mutamento nel discente, fino a comprendere cioè a padroneggiare tutte le tecniche quindi ad arrivare alla conoscenza di se stessi e di conseguenza raggiungere un certo grado di maestria.