Fabio Branno: tesi 4° dan

STRUTTURARE E DESTRUTTURARE
Apprendere per imitazione, ripetendo innumerevoli volte lo stesso identico gesto, finchè esso non entra a far parte di noi e ci modifichi dall’interno, forgiando sulle sue forme il nostro corpo e piegando la nostra mente alle sue logiche.
La didattica del Budo passa da secoli attraverso questo sistema.
L’allievo ricalca una forma pedissequa, la ripete per anni instancabilmente, la sbaglia migliaia di volte finchè essa stessa smette di essere avulsa e si fonde con lui, fino a diventare parte di sè.

Ma da dove nasce questo approccio? Cosa ha decretato la Ripetizione come migliore strumento didattico?
Probabilmente l’esigenza di insegnare un gesto senza rivelarlo alla mente. Probabilmente il dover testare la fedeltà dell’allievo alla scuola,per evitare che chiunque potesse apprendere le meccaniche della disciplina in tempi sufficientemente brevi da poterle utilizzare contro i propri insegnanti, contro la stessa famiglia.
In quest’ottica, la ripetizione di un kata diviene una sorta di messaggio cifrato, oscuro alla logica, ma educativo per il corpo, che, in maniera inconsapevole, apprende le meccaniche, irrobustisce le ossa, potenzia i muscoli, necessari ad applicare ciò che alla mente sarà rivelato solo dopo, col tempo, quando gli anni avranno testimoniato la fedeltà del discepolo ed egli avrà dimostrato la sua integrazione al Ryu.

Il giorno arriva, infine, e la mente viene aperta. L’allievo rivede e sue conoscenze attraverso nuove ottiche, le scandaglia minuziosamente filtrando il messaggio dalla cifratura, e tutto ciò che conosce, per la prima volta, prende davvero vita.

Il gesto assoluto, la perfezione del movimento giudicata in funzione di un movimento ideale, smette di esistere.
Sgorga una perfezione relativa, nasce spontaneamente ciò che serve, in rapporto ai parametri del momento, in rapporto allo spazio, al tempo, all’altro, all’obiettivo.
L’immagine è di una forma che si adatta all’uomo e non di un uomo che si piega alla forma.

L’immagine di un allievo, che affronta mille difficoltà perseverando ogni giorno, fino a conquistare la vetta e divenire maestro è un clichè delle arti marziali: dal primo giorno di lezione ogni studente sogna il giorno in cui indosserà la cintura nera e padroneggerà i segreti dell’arte.

D’altro canto però, come insegnanti sappiamo bene che il traguardo non arriverà da solo.
Sappiamo perfettamente che spetterà a noi definire un percorso che passi attraverso dei check point di verifica e che conducano esattamente dove vogliamo arrivare.
Sappiamo bene che apprendere il reishiki, conoscere formalmente i gesti, comprenderne i dettagli, eseguire un movimento perfetto, non sono che check point.
Sappiamo bene che permettere all’allievo di indugiare su di essi servirà soltanto a rallentarne il cammino, o nel peggiore dei casi, ad arrestarne la crescita.

In Aikido il Kata non esiste. In vece sua utilizziamo dei modelli prestabiliti, in cui, teoricamente, è sempre possibile adattare il movimento alla reazione del compagno, in modo da lavorare con una mente duttile.

Le forme che utilizziamo, però, divengono negli anni sempre più ricche di dettagli: le forme assumono geometrie molto precise, punti di contatto molto netti, e tempistiche sempre più dettagliate.
Col tempo il movimento assurge ad una perfezione ideale, un meccanismo ad orologio in cui ogni ingranaggio deve interfacciarsi con gli altri in maniera scentifica.
Col tempo il waza comincia, così, a diventare kata.

Ogni meccanismo prevede una moltitudine di ingranaggi, che vanno dalla giusta distanza di partenza per poter attaccare, al movimento migliore per entrare nell’attacco e prendere il giusto contatto al fine di lavorare la tecnica prescelta.

Il risultato di questo percorso è visivamente molto gradevole. Le azioni sono perfettamente coreografate e l’intesa tra i partner diviene col tempo tanto perfetta da apparire più come una danza sinuosa che come uno scontro violento.

Ma questo risultato trascina con sè degli immancabili risvolti: il sapere viene suddiviso in unità molto pesanti, sia come numero di movimenti che come quantità di dettagli.

In termini pratici finiamo col non conoscere più Shihonage, ma Yokomenuchi Shihonage Omote.
Senza tenere conto di tutte e possibili forme e variazioni che possono rispondere allo stesso nome.
In termini didattici smettiamo di lavorare su un principio e cominciamo a lavorare su un kata.

Immediata la constatazione del paradosso: finiamo con l’utilizzare uno strumento didattico che per definizione è estraneo alla nostra disciplina, ci troviamo con in mano uno strumento molto pesante, un attrezzo, convinti di impugnarne un altro, un mattone credendo di utilizzare il pezzo di un puzzle.
In altre parole una disciplina che ha in potenza elementi didattici brevi e duttili, si ritrova a proporre un apprendistato con elementi didattici pesanti e rigidi.

Consapevoli della strada intrapresa, sottolineiamo chiaramente che questa rappresenta solo una parte del percorso, la base, utile all’acquisizione di qualità propedeutiche e di strategie fondamentali.

Negli anni la didattica si è specializzata nella formazione di base.
Oggi, possiamo affermare senza difficoltà di poter produrre allievi dal livello medio più che soddisfacente, capaci di muoversi senza troppe difficoltà su tutti i tatami e di interpretare egregiamente sia il ruolo di tori che quello di uke.

D’altra parte però, non ci sono state reali evoluzioni dal punto di vista della formazione avanzata: siamo diventati ottimi nello strutturare gli allievi, ma ci troviamo a muoverci a tentoni quando si tratta di destrutturarli.

Tuttora la concezione dell’applicazione in quanto tale è abbastanza confusa. Spendiamo molto tempo a lavorare degli strumenti formativi poco applicabili.
Li appesantiamo di dettagli negli anni, sottolineandone l’importanza come se l’inapplicabilità fosse legata all’assenza di uno solo di essi.

Ed infine estrapoliamo dalle forme basiche degli strumenti applicabili che erroneamente confondiamo con le applicazioni.

Applicare un gesto significa creare delle condizioni in cui è necessario esprimere ciò che abbiamo maturato praticando, per testare ciò che l’allenamento ha lasciato nell’inconscio, costruendo uno scenario in cui memoria e raziocinio vengono cortocircuitati.

Perchè ciò sia possibile è indispensabile cominciare un percorso consapevole che possa portare attraverso una serie di step a confrontarci con situazioni dal numero di variabili sempre maggiore e che di volta in volta ci permettano non solo di possedere degli strumenti ma di servircene in maniera tanto efficace quanto efficiente.

Questo percorso passa attraverso una frammentazione della conoscenza. Ridurre i mattoni in pietre e levigarle una per una al fine di poterle utilizzare in maniera duttile, creativa ed appropriata come tessere che ci permettano di realizzare esattamente il mosaico che abbiamo in mente.

AREE DI LAVORO
La didattica per obiettivi, sviscerando di volta in volta la qualità su cui abbiamo deciso di lavorare, è prassi in ogni dojo di Aikido.
Facilmente però si incorre in grossi equivoci laddove è equivocabile lo strumento utilizzato.
Se utilizziamo una forma, Katatedori Shihonage ad esempio,per ottenere uno specifico risultato, che potrebbe essere il rinforzare gli appoggi, scegliamo una fora che evidenzi il più possibile il punto che vogliamo esaminare.
Quando siamo soddisfatti dell’obiettivo raggiunto e decidiamo di passare ad altro, come ad esempio lavorare sulla fluidità dei Tai Sabaki, possiamo servirci ancora dello stesso esercizio, Katetedori Shihonage, sviluppando un’esecuzione che sottolinei l’importanza del movimento fluido.

E’ una concezione molto comune nell’insegnamento. Spesso lavoriamo in questo modo senza neanche fermarci a pensare a cosa stiamo facendo.
Ma ad un esame attento cosa realmente abbiamo ottenuto?
Abbiamo preso un principio, Shihonage, e ce ne siamo serviti per creare due qualità, attraverso logiche didattiche diametralmente opposte (piazzamento e fluidità, che richiederanno molti anni di allenamento prima di poter realmente coesistere), che serviranno per poter poi applicare Shihonage.

In sintesi abbiamo utilizzato una tecnica come propedeutica di sè stessa.

Un approccio che intuitivamente trascina con sè un’interminabile serie di equivoci. La differenziazione degli obiettivi non dovrebbe avvenire all’interno della forma scelta, ma piuttosto all’interno di specifiche Aree di Lavoro in cui abbiamo scelto di definire il sistema.
In maniera molto semplice potremmo pensare di suddividere lo studio in tre Aree distinte: Propedeutica, Tecnica ed Applicativa.

L’Area Propedeutica racchiuderebbe in sè tutte le competenze relative all’ Attitudine.
Rilassamento, Respirazione, Centralizzazione, Elasticità, Sensibilità,Contatti come esempi di qualità per gestire al meglio il proprio corpo, per comprenderne la biomeccanica, i limiti e le potenzialità.
In quest’area potrebbero rientrare anche i primi rudimenti della tecnica: Tai sabaki, Ukemi ed Atemi.
Gli esercizi utilizzati per lavorare le singole qualità non dovrebbero poter essere equivocati con i waza di base nè tantomeno con le loro applicazioni.
Se per esempio volessimo sviluppare la Centralizzazione, potremmo lavorare sulla postura da fermo, in movimento semplice, come il camminare, abbassarsi o rialzarsi, in movimenti complessi, come ruotare, saltare, o cambiare rapidamente direzione e guardia e sotto disturbo, con un partner che fa pressione sulla spalla, ad esempio, o che ci tira durante l’azione.

Così come potremmo insegnare ad attaccare senza necessariamente subire una tecnica, e dunque liberare la mente da un ruolo, quello di Uke, troppo spesso già pronto a cadere, mantenendo invece uno spirito neutro e chiaro nell’intenzione di colpire.

L’Area Tecnica sarebbe il momento per sviluppare i principi nella maniera più assoluta possibile.

Sviluppare il waza senza legarlo alla situazione di attacco. Sviscerarne le possibilità con un partner completamente nutro, che rappresenti per noi uno strumento di riferimento e non ancora un avversario.

Le forme scelte dovrebbero rispondere a dei canoni prestabiliti. In primis non richiedere alcuna collaborazione da parte di uke. Nessuna forma che sia legata ad una reazione prestabilita del compagno, che ci costringe immancabilmente ad addomesticare i neofiti, a spegnere la loro spontaneità e che rappresentano il nostro punto debole laddove riceviamo una risposta inaspettata.

In secondo luogo bisognerebbe scegliere delle forme che non abbiano alcuna fase preparatoria.

Perchè una forma possa essere assoluta è necessario che possa esistere in maniera diretta, senza dover partire, necessariamente, da una condizione prestabilita.

L’obiettivo è comprendere istintivamente che da una determinata posizione esiste un pull di tecniche che ci permette di controllare l’azione.
Non tutte le tecniche possono essere applicate da tutte le posizioni e non vale la pena cambiare la posizione, passando ulteriori informazioni al partner, al fine di utilizzare delle forme prescelte.
Sarebbe interessante partire unicamente da una posizione aihanmi e gyakuhanmi, per quanto riguarda il lato, ed interno alla guardia (uchi) o esterno alla guardia (soto) per quanto riguarda la posizione.

Tutto ciò che concerne l’azione può essere accolto dall’ Area Applicativa.
Qui bisogna un attimo soffermarsi a definire, anzitutto, cosa intendiamo per Applicazione.
Una prima analisi ci porta ad affermare che applicare uno strumento non può voler dire impossessarsi di un nuovo strumento.

Bisogna applicare ciò che abbiamo studiato oppure dobbiamo studiare ciò che possiamo mettere in pratica.

L’applicazione di Shihonage dovrebbe essere Shihonage. Se essa viene fuori come un kokkyunage o stiamo applicando un nuovo strumento o lo strumento che abbiamo appreso non adatto ad essere applicato.

Il lavoro di quest’area non dovrebbe entrare nel merito della tecnica, che ha una sua area specifica, ma organizzare degli scenari a difficoltà crescente in cui sia necessario servirsi delle tecniche apprese per risolvere una situazione.

Adattare il Tai Sabaki all’attacco, imparare ad intervenire su un colpo per prendere contatto e catturare il centro, con la mente sgombra, senza partire con un’idea pregressa su nessuna tecnica specifica è sicuramente il primo step di questa area di lavoro.

Soffermasi su un punto vedetta, imprescindibile per entrambi, che ci consenta di ottenere le informazioni che ci servono su uke e sugli spazi disponibili al fine di imparare a scegliere la tecnica più appropriata, finchè non sgorghi automatica dal nostro subconscio rappresenterebbe il secondo step.

Da qui un allenamento su livelli variabili di stress necessari a stimolare le risposte automatiche di Tori rapportandole alle situazioni che dinamicamente prendono forma.

Esempi di variabili possono essere quelle relative al Partner: Uke spinge o tira, Uke attacca più volte, Uke cambia i contatti. O relative allo spazio. si lavora schiena o petto al muro, da seduti, di fronte ad un attacco improvviso e così via.

La creatività può manifestarsi a cascata, limitata solo dai confini della disciplina: le azioni vengono monitorate strettamente per evitare che i praticanti oltrepassino i binari che definiscono ancora come aikidoistiche le loro risposte.

Azioni controarticolari, percussioni preventive, uso indiscriminato della forza fisica, per esempio, potrebbero rappresentare facili escamotage che ci portano fuori dal pericolo ma anche lontano dai principi.
Inoltre, se a priori abbiamo deciso di insegnare a tutti, tutti devono essere in grado di lavorare realmente, indipendentemente dalla forza e dalla massa fisica.
E in tutta sincerità non sono assolutamente sicuro che una donna,per esempio, potrebbe essere sufficientemente dissuasiva percuotendo un culturista…

L’obiettivo è creare il caos e riuscire a dominarlo servendosi degli strumenti appresi.

GEOMETRIE DELL’AIKIDO
Nonostante la sua scarsa formazione culturale, per lo più religiosa, ma sicuramente non scentifica, O Sensei faceva continui riferimenti alla geometria dellʼazione.
In maniera del tutto empirica, egli parlava di Quadrato, Triangolo e Cerchio.
Negli anni le interpretazioni date all’utilizzo di tali figure nell’Aikido sono state varie e variegate.

In questa sede non mi soffermerò sulle concezioni shintoiste del trittico di O’Sensei, nè sulle idee dello Shodo a proposito del loro rapporto con gli Ideogrammi “Ai”, “Ki” e “Do”.
Mi soffermerò sul fatto che il Triangolo è la base, ottenibile in due copie tracciando una diagonale nel Quadrato o in infinite copie che hanno per base un punto tracciando infiniti raggi del Cerchio.
Prenderò in esame come il riferimento al triangolo possa rappresentare un faro costante nella difficoltà, la possibilità di trovare l’Ordine a partire dal Caos.

SANKAKUTAI
Il Kamae dell’Aikido è ricavato dalle antiche scuole di Kenjutsu. I piedi in posizione triangolare, con il piede anteriore dritto quello posteriore posizionato perpendicolarmente (Sankaku no Kamae) o al contrario con il piede davanti aperto verso l’interno e quello di dietro posizionato verso l’avversario (Hitoemi) permettono di sviluppare gli appoggi in maniera lineare, in modo da offrire il minor bersaglio possibile all’avversario, da ruotare il più velocemente possibile con un unico movimento, ed in maniera da utilizzare allo stesso modo ken e jo.

La distanza tra i piedi è la distanza delle spalle.
La figura che il corpo crea in questo modo è simile ad una clessidra o a due triangoli in cui un vertice è sovrapposto.

Fra i piedi c’è tensione, come se volessero allontanarsi uno dall’altro.
Tensione che si ripercuote nelle gambe e che si scarica nelle anche creando un accumulo di energia potenziale.

Una corretta postura nasce nel momento in cui la testa, come vertice superiore, si posiziona perfettamente in asse con i piedi, la base, per formare un triangolo d’equilibrio.

L’asse del triangolo è ovviamente l’asse del corpo. Su di esso si scarica completamente la forza di gravità.
L’importanza assoluta di una buona postura è evidente nel momento in cui ci si rende conto che laddove l’asse è impuro, il corpo spreca parte della sua energia per contrastare gli effetti della gravità.
L’obiettivo dovrebbe essere invece quello di ottimizzare al massimo le proprie risorse per canalizzarle nell’azione principale,evitando gli sforzi parassita che dissipano la nostra energia.

Un ottimo test per misurare la percentuale di energia presente in un gesto è quello di lavorare sugli atemi.
Ci son due maniere di utilizzare il proprio potenziale per colpire.
Energia Progressiva ed Energia Esplosiva.
L’Energia Progressiva si esprime attraverso una spinta che il corpo imprime all’arto che colpisce.
L’immagine è quella di un giocatore che lancia una palla da baseball: il braccio carica il gesto, il corpo si srotola e cade in avanti in direzione del bersaglio un attimo prima che la mano lancia a palla.

L’Energia Esplosiva invece nasce da un corretta trasmissione della forza di gravità.
L’immagine che se ne ricava è quella di una pistola che spara un proiettile.
Nessun caricamento ed un movimento di rinculo al momento della partenza del colpo.
Il corpo scarica la forza di gravità lungo il proprio asse. Allo stesso tempo, la terra scarica una quantità pari alla forza peso del corpo in equilibrio, lungo il suo asse, ma in direzione opposta.
Una corretta meccanica articolare, ad Onda, può canalizzare ed implementare questa energia scaricandola in maniera immediata e sorprendente sul bersaglio.
E’ quello che nelle discipline cinesi viene definito FaJin.

L’energia progressiva sfrutta parte della forza peso per colpire. il suo impatto è estremamente dipendente dalla massa del corpo che lancia l’attacco.
L’energia esplosiva sfrutta tutta la forza peso e la moltiplica attraverso il corretto uso delle catene cinetiche. La sua potenza è dipendente non solo dalla massa del corpo che attacca ma anche da un fattore legato alla qualità della trasmissione dell’impulso.
Nel primo caso, l’impatto si ripercuote identico ma in direzione contraria sull’arto portante, che resta schiacciato tra il corpo dell’attaccante e quello dell’attaccato.
Nel secondo caso l’impatto resta nel corpo di chi lo riceve, poichè l’arto non è costretto dopo aver colpito.

PUNTO DI TRIANGOLAZIONE
Nelle arti del corpo, siccome non esiste l’assoluto e l’equilibrio statico, ogni azione possiede il suo reciproco. L’idea che sia impossibile creare un’azione assoluta, che copra in maniera definitiva ogni apertura è frutto di una romantica ingenuità che pervade pellicole cinematografiche e principianti.
Sapere che ogni azione ha dei punti morti, che ogni movimento ha delle ombre, ci consente di comprendere come nascondere e di approfittare di esse quando ce le troviamo davanti.
Sankaku no Kamae presenta due punti vuoti, due aperture nelle quali l’equilibrio è fortemente instabile.
Se consideriamo la posizione del cavaliere (Kibadachi), la base di tutte le discipline marziali, da Judo al Sumo, dal Karate agli stili cinesi, due punti sono vuoti.
Tale mancanza è dovuta la fatto che la stabilità viene cercata su due appoggi, mentre geometricamente una base minima ne richiederebbe tre.
I punti vuoti cadono,dunque, esattamente nel punto in cui manca il terzo appoggio: o davanti o dietro l’esecutore.
Quando dal Kibadachi si passa in qualunque altra posizione le anche vengono ruotate lateralmente. Con esse ruotano anche i punti vuoti, che chiameremo Punti di Triangolazione, perchè con essi si potrebbe costruire proprio il triangolo mancante.

I principi di verticalizzazione che l’Aikido mutua dall’uso della spada, ci permettono di visualizzare i punti di triangolazione come ottimi riferimenti per esprimere le azioni taglienti a noi tanto care: il punto anteriore per le azioni omote e quello posteriore per le azioni ura.
Visualizzare chiaramente i punti di triangolazione ci permette di non lavorare mai contro uke, spingendolo via, ma di squilibrarlo da una distanza in cui le nostre braccia possono eseguire completamente i movimenti discendenti senza scontrarsi con lui.
Un’altra questione interessante è legata all’utilizzo dei punti di triangolazione, proprio in relazione alla distanza di lavoro.
Se la distanza è toppo ampia, ci sarà impossibile scaricare in maniera efficace tutti il nostro peso nei punti vuoti della struttura di uke.
Ma allo stesso tempo, se occupiamo col nostro corpo i suoi punti vuoti, noi stessi diventiamo l’appoggio mancante.
L’equilibrio di uke si completa con il nostro asse ed ogni nostra azione su di esso non può che essere frutto di una forzatura.
In quel caso bisognerà lavorare sul movimento, o uscendo per liberare il punto di triangolazione o facendo muovere uke, per crearne di nuovi.
Ad ogni modo, la purezza dell’azione prevederebbe, per ragioni di economia di movimento e velocità di reazione, che i punti di triangolazione fossero sempre vuoti e sfruttabili istantaneamente.

SHIKOKU
Dal punto di vista strategico, il generale che è in grado di servirsi dello spazio a proprio vantaggio, ha enormi possibilità di vittoria, come diceva Sun Tzu.

Scontrarsi in maniera lineare, è un buon esercizio per allenare la centralizzazione e la tempistica.
La Kihon Dachi di Kashima lavora essenzialmente in questo modo. Eppure strategicamente questa è un’azione border line, un rischio enorme quando non si conoscono a priori le intenzioni e le qualità del nostro attaccante.
Le serie successive, difatti, prediligono un approccio più dinamico, in cui la strategia sia evadere l’attacco per rientrare a nostra volta sul centro.
Ura Dachi, o Jissen Kumidachi per esempio sono un eccellente dimostrazione di questa strategia.
La particolarità di un’evasione tesa a rientrare, è negli angoli che si sceglie di percorrere rispetto all’attaccante.
Se visualizziamo il Kensen, la linea d’attacco, come una bisettrice, andiamo a coprire esattamente la linea esterna dell’angolo che la bisettrice taglia, glissando sull’attacco, in modo da evitarlo restando in una distanza in cui sia ancora possibile contrattaccare.
Al termine dell’uscita, le anche si riposizionano ed il nostro centro rientra sul centro di uke, chiudendo il triangolo di forze che ci permette di rompere sui lati a pressione dell’attacco.
Una strategia cara al grande esercito di Roma: aggirare ed attaccare ai fianchi l’esercito nemico con una manovra di cavalleria a forbice.
Tale azione può essere sviluppata agevolmente in ingresso o in aspirazione, a seconda dell’intensità dell’attacco avversario e degli spazi disponibili.
La sperimentazione ci permette di visualizzare facilmente gli angoli che ci permettono di conquistare una posizione interna alla guardia dell’attaccante, ma difficile da raggiungere per un suo doppiaggio: 22,5, 45, 90 e 180 gradi.
Essi corrispondono in maniera diretta ai taisabaki Okuriashi, Tenshin senza cambio di appoggi, Tenshin cambiando gli appoggi e Tenkan.

GUARDIA A TRIANGOLO
La possibilità di affrontare situazioni impreviste e ricche di variabili richiama all’esigenza di dover coprire in maniera immediata più fronti possibile per poterci proteggere e prendere contatto con
l’arto attaccante.

Rispetto alle possibili linee d’attacco, è intuitivo notare che il triangolo, con la sua forma appuntita e spiovente, rappresenta un eccellente approccio difensivo-offensivo.

Di per se, un braccio esteso con il tegatana in linea col nostro asse è la forma di lavoro che utilizziamo nella base come atari.
Dato però che la nostra esigenza è quella di approcciarci ad un attacco del quale non conosciamo la direzione, ha poco senso immaginare una difesa che utilizzi solo un emilato del nostro corpo, lasciandone inerte un’altro.
La necessità ci impone di ricorrere a tutte le nostre risorse. Musashi, sfoderando la sua seconda katana, è stato un esempio per le scuole di kenjutsu a venire…
Dunque l’idea è quella di servirsi di entrambi i lati, sfruttando un approccio a due braccia.

La punta del triangolo consente di incunearsi negli attacchi, per controllare il centro, mentre le braccia inclinate servono da spiovente per portare gli attacchi fuori dai nostri bersagli, sfruttando la posizione e non il movimento per deflettere le azioni di uke.

E’ un principio che nei nostri programmi è presente in una moltitudine di azioni, una su tutte KURAI DACHI, il quinto Kumi Dachi della Prima Serie di Kashima.

La possibilità di azione concessaci dal triangolo è vastissima:
Possiamo approfittare della potenza della sua struttura per scaricae la pressione di uke e rompere la forza del suo attacco.
L’immagine è entrare in ura da yokomenuchi.

Si può tranquillamente destrutturare un lato del triangolo e filtrare con lʼaltro.
Immaginiamo katatedori Tenchinage.

E’ possibile prendere contatto con l’atro che colpisce e scivolare con le braccia in direzioni opposte, come in Jodantsuki Iriminage.

Ed è inoltre possibile intercettare gli attacchi su tutte le altezze, e da tutte le distanze, scivolando da una posizione seigan, con in triangolo disteso in avanti, ad una posizione mugamae, col triangolo che punta in basso, per scaricare al suolo il contatto, come in Naname Kokkyunage.
La sua applicazione si esprime però al meglio in Koji Kamae: ad una distanza ristretta, le braccia salgono in posizione triangolare sopra la nostra testa,contrastando l’attacco con i due vertici del triangolo posti sulla base, i gomiti, e caricando sulla testa le armi che più abbiamo allenato nel quotidiano: le azioni di taglio in Shomen e Kesagiri, sia come contatto e sviluppo di un Waza, sia come minaccia di percussione singola o doppiata.

ATARI
Disinnescato l’attacco principale, resta ancora il compito di prendere le redini della situazione e di controllare uke in un circuito di proiezione o immobilizzazione dal principio aiki.

Fronteggiando attacchi variabili, non è pensabile il partire avendo già in mente la tecnica da portare.
La situazione, le contingenze, le reazioni e gli spazi ci diranno cosa è possibile fare caso per caso, sentendo col corpo e non visualizzando con la mente, le nostre possibilità, in modo che le azioni scaturiscano dall’animo e non dalla memoria.

L’esigenza di ricevere delle informazioni che vadano in maniera diretta a stimolare la coscienza del corpo e non la memoria tecnica, ci obbliga ad incentrare sulla presa di contatto il momento della scelta e della decisione.

Ma cerchiamo di andare con ordine.
Prendere il contatto significa anzitutto controllare l’attacco.
Osservando in maniera realista una situazione composta da un numero infinito di variabili,
pensare di poter intercettare un pugno,nel nostro esempio, che può colpire un numero incalcolabile di bersagli, intervenendo sulla sua manifestazione nello spazio è pressocchè utopistico.
In uno spazio composto da punti infiniti, infinite solo le posizioni che il colpo può occupare
al momento dell’impatto.
D’altro canto invece, pur avendo innumerevoli manifestazioni in relazione all’angolo, ed alla traiettoria d’attacco, i colpi possibili hanno tutti un’unica sorgente: la Spalla portante, nel caso di un attacco di braccio, ed il ginocchio portante, nel caso di un attacco di gamba.
Tale riferimento, il cui controllo ci mette in condizione di arrestare tutte le possibili linee d’azione dell’arto, è chiamato Cancello Primario.

In secondo luogo, il controllo tattile si è dimostrato, scientificamente, un recettore molto più
immediato a livello neuronale, del controllo visivo.
L’immagine in movimento deve essere codificata dall’occhio per essere trasmessa al cervello come stimolo nervoso.
Lo stimolo tattile per contro, non necessita di questa codifica e, immediatamente, comunica allʼ Sistema Nervoso Centrale le informazioni sull’evento stimolante.

Dato che questa considerazione è ambivalente, ossia vale per tori come per uke, viene spontaneo sottolineare come sarà invece compito di tori evitare il più possibile di attivare tale processo nell’attaccante, evitando, una volta preso il contatto, il passaggio di qualunque informazione preparatoria, che metterebbe l’altro in condizione di cambiare la propria posizione, per chiudere le aperture evidenziate, passandogli invece solo ed unicamente la sensazione definitiva.

Ogni volta che un contatto vienecreato, esso deve darci la possibilità di essere al contempo coperti e minacciosi: uke deve sentire tale minaccia e comprendere istintivamente che il contatto è importante allo stesso modo anche per lui, al fine di non lasciare a tori la possibilità di entrare per linee dirette.

Un corretto piazzamento, un’attenzione totale alla posizione ed alle intenzioni dell’altro, come agli spazi disponibili, sono gli unici riferimenti che ci consentono di scegliere una tecnica adeguata, possibile ed assoluta con cui finalizzare la situazione.
Il perno evolutivo, dunque, si sposta da ciò che abbiamo in mente di fare, a ciò che realmente possiamo fare a partire dalle premesse finora create.
Saper ascoltare il contatto vuol dire poter scegliere la risposta corretta.
La rivoluzione della tesi si incentra proprio su questo: sviluppare una pratica che ci porti ad una tecnica adeguata alla situazione creata, e non creare una situazione perfetta per entrare con la tecnica preventivamente selezionata.

RANDORI
Randori è il lavoro sul Caos. Spesso lo si associa, nell’immaginario dei meno esperti, alla capacità di gestire una moltitudine di attacchi.
Con la pratico, con gli errori, con i lividi….Il corpo impara a gestire, invece, gli spazi.

Mano a mano che attacchi ed attaccanti disegnano intorno a noi uno spazio pieno, mano a mano che si definisce il nostro spazio di pericolo, allo stesso tempo si disegna uno spazio di libertà, un’apertura sicura in cui potersi muovere.

L’obiettivo è vedere quell’apertura e piazzarsi nello spazio in rapporto ad essa, piuttosto che in rapporto al pericolo.
Come un rigo sul quaderno, per noi è la definizione dello spazio vuoto in cui poter scrivere, allo stesso modo le linee d’attacco sono per noi il rigo rispetto al quale muoverci, l’indicazione che uno spazio vuoto sta creandosi e la percezione che il nostro centro deve occuparlo.
Tutto nasce dalla capacità di utilizzare al massimo le percezioni sensoriali piuttosto che le elucubrazioni mentali.
La vista, in primis, va estesa in maniera periferica. In modo da provare a ricevere l’immagine del movimento invece che una moltitudine di momenti fermi nel tempo.
La visione periferica può essere migliorata con l’allenamento, fino a coprire un angolo di visuale di 170 gradi, che vuol dire percepire ogni pieno ed ogni vuoto in movimento sull’emilato frontale.

Proprio in rapporto a tali vuoti il corpo si posiziona e la tecnica si definisce.
Laddove esiste un vuoto esiste uno spazio di libertà, in cui poter esprimere il proprio aikido
e, allo stesso tempo riuscire ad esprimerlo significa aver trovato la libertà.

Molte possono essere le visioni della pratica e gli obiettivi morali a cui essa possa condurre.
La mia visione è che il traguardo non sia liberarsi di uke, ma diventare liberi nonostante lui.

CONTUNDENZA
In una situazione in cui è il Caos ad essere sotto esame, non possiamo non prendere in onsiderazione le due variabili più casuali: Spazio e Tempo.
Proprio per la loro natura contingente, esse si manifestano sempre in maniera disordinata, disorientante e penalizzante per Tori.

I test sul campo dimostrano sempre che nel Randori la gestione dello spazio e del tempo è una caratteristica che fa la differenza fra riuscire e fallire.
Per gestione, però, deve intendersi la capacità di adattarsi alle mutazioni improvvise in termini di velocità,ritmo e distanza che possono presentarsi in una situazione non preordinata.

Alla base c’è la difficoltà di adattare le forme di base ad uno spazio che all’improvviso diventa ristretto e claustrofobico, e ad un tempo che in maniera incontrollabile diviene troppo corto per poter agire serenamente.

Nonostante ciò, i principi dell’arte non devono mutare: se essi sono tali, devono poter essere adattati ad ogni situazione, per poter ritrovare un ordine nel caos, un’area conosciuta all’interno di un mondo sconosciuto.

In un quadro in cui i tempi sono più cadenzati ed il lavoro può essere sottoposto ad un check up più capillare, il principio è prendere un contatto in maniera da ricevere informazioni sulla posizione e sulle intenzioni dell’attaccante.
Laddove, però, il tutto assume una veste più frenetica, prendere un contatto potrebbe rivelarsi più dispendioso, in termini di tempo e di spazio, di quanto possiamo permetterci.

La necessità è dissuadere l’attaccante dal perseverare nell’attacco. Rompere la struttura, le armi e l’intenzione indispensabili per proseguire.

La risposta a questo problema è all’interno di una strategia chiamata Contatto contundente.

L’immagine è di un’onda che si infrange su uno scoglio.
L’attacco arriva e si schianta su un punto del nostro corpo che ci permette allo stesso tempo di percepire spazio e tempo e di arrestare, letteralmente, il colpo o la sequenza di colpi di uke.

Dalla guardia triangolare, imparare ad utilizzare i gomiti e le ginocchia per intercettare un attacco ci consente di trasformare i ridotti spazio tempi da svantaggio in vantaggio per tori:dalla posizione kojikamae, intercettare utilizzando i gomiti ci permette

1) di prendere contatto a distanza d’omero invece che del braccio disteso
2) di infrangere l’azione costringendo l’attaccante ad organizzare una nuova strategia
3) di mantenere armate le braccia sulla testa, con Shomen/Yokomen sempre carichi
4) di Chiudere immediatamente la distanza con l’attaccante andando subito sul suo centro

 OSTAGGIO
Nel randori si assiste sempre ad una fretta eccessiva nel proiettare gli attaccanti.
Si costruisce un momento di controllo , a fatica, e ci si libera di esso il prima possibile. Un controsenso, in qualche modo!

Così come nel lavoro con uke singoli è necessario trovare un momento nell’azione che ci consenta di raccogliere informazioni su ciò che è possibile fare, a maggior ragione nel lavoro con uke multipli è indispensabile avvalersi dei momenti vedetta per tenere sotto controllo l’intera situazione.

Gestire appieno l’equilibrio di un uke, mantenerlo in sospensione e servirsene per
controllare le posizioni degli altri attaccanti nello spazio, è la chance che ci viene data
quando nella tecnica viene evidenziato il Controllo e la Vedetta.

La fretta, in questo studio, è cattiva consigliera e fonte di aperture su tutti i fronti.

Modena: 22-23 nov 09, s Stage formazione insegnanti Ado-Uisp

Tesi 4° dan presentata da Fabio Branno



6 commenti

  1. fabrizio wrote:

    Belle parole, bella tesi, peccato che quando pero’ insegnate non fate nulla di quello scritto sopra, facendovi prendere troppo dagli eventi……

  2. Fabio Branno wrote:

    Probabilmente è solo passato troppo tempo dall’ultima volta che hai partecipato ad una nostra lezione, caro giuseppe

  3. Fabio Branno wrote:

    ERRATA CORRIGE: “caro Fabrizio”

  4. Fabrizio wrote:

    Si scusa, non era riferito specificatamente a te, ma in generale, dove io ho incontrato insegnanti che per “catturare” iscritti fanno i discorsi citati nella tua tesi…, ma quando sono sul tatami spesso “vanno in trans” demotivando gli allievi con il loro comportamento, non tenendo per nulla in conto le specificita’ di ciascun iscritto. Non credi Fabio che per dare un brevetto da istruttore si debba, oltre presentare una tesi, superare un rigoroso test (o visita) neurologica da un buon medico specialista? Se poi questo istruttore, pur avendo fatto un buon percorso formativo, una buona tesi ecc…. dovesse aprirsi un corso per bambini??? come la mettiamo?? (pensa che ora per fare la maestra d’asilo occorre essere laureati). Mediamente si mettono istruttori o pseudo di gradi bassi a seguire i bambini; dovrebbe invece essere il contrario…..!!!
    Ripeto Fabio non e’ per nulla riferito a te, mi ha solo ispirato il contenuto della tua tesi per fare queste considerazioni.
    Ciao Fabio ti saluto.

  5. Fabio Branno wrote:

    Concordo pienamente col tuo commento,Fabrizio!
    Purtroppo finchè non si comprenderà che insegnare Arti Marziali richiede professionalità, competenza tecnica e competenza didattica, e che senza uno di questi ingredienti il risultato non è positivo, non usciremo da questo empasse di pressapochismo.

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