Disciplina ed etica nelle Arti Marziali
Le arti marziali giapponesi sono da sempre custodi di una forte tradizione basata su elementi religiosi, filosofici e tecnici propri della cultura nipponica.
Non è strano, quindi, immaginare come, insieme all’aspetto tecnico, siano giunti fino a noi altri elementi tipici di questa tradizione così forte e tutt’oggi, ancora presente.
Nonostante noi occidentali pratichiamo discipline tradizionali come l’Aikidô, non siamo di certo obbligati ad essere shintoisti o fanatici rispetto ad una cultura che non ci appartiene, ma esistono alcuni modi di comportarsi ed alcuni aspetti “filosofici”, senza i quali l’Aikidô, come le altre discipline tradizionali, non avrebbe più lo stesso senso.
Non voglio dilungarmi molto con paroloni e frasi fatte che mi farebbero cadere nella più pesante retorica, quindi, preferisco passare avanti analizzando punto per punto i singoli aspetti dell’Etica delle Arti Marziali.
IL SALUTO
D’estrema importanza è il Saluto.
In Giappone, il mito vuole che il dio Izanami e la dea Izanagi, durante un gioco d’amore, si rincorrevano girando intorno ad una colonna senza mai incontrarsi fino al momento in cui ciò avvenne ed entrambi, affascinati dalla bellezza dell’altro, s’inchinarono (simboleggiando un inchino alla Natura) per ringraziare di essere stati onorati di un così meraviglioso spettacolo.
Da allora i giapponesi usano inchinarsi dinanzi ad ogni cosa ritengano sia un dono della Natura e dei Kami (spiriti shintoisti), quindi anche dinanzi alle persone con le quali si stabilisce un rapporto d’armonia (AI) e pronunciano, se è il caso, le parole “ONEGAESHIMAS” che significa “TI PREGO [D'ARMONIZZARTI CON ME]“.
Ecco il motivo per cui, nel dôjo, è di estrema importanza eseguire correttamente il saluto di apertura e di chiusura della lezione per onorare il fondatore, per dare inizio all’armonizzazione tra i praticanti ed infine, il saluto tra uke e tori i quali si apprestano ad armonizzare la loro energia (KI), allenando insieme la tecnica.
Quando si effettua il saluto in seiza, si scende prima con la gamba sinistra, perché è il lato in cui si idossa la spada che deve essere sempre libera di essere sfoderata, poi la destra segue, ciò vale anche per le mani: si appoggia per terra prima la sinistra lasciando libera la destra di afferrare, eventualmente, la spada, poi quest’ultima segue ed infine si compie l’inchino. Rispetto al grado della persona che ci si trova dinanzi, l’inchino è più o meno profondo.
IL SILENZIO
Fondamentale, nella pratica dell’Aikidô è la concentrazione.
L’Aikidô è una delle discipline dove lo Zen ha trovato un terreno molto fertile per la sua applicazione. Secondo questa dottrina, la concentrazione assume un significato diverso da quello che noi occidentali siamo abituati ad attribuirle: per lo Zen, concentrarsi, non significa pensare intensamente a qualcosa, bensì, l’opposto, in altre parole, evitare di riflettere ed elaborare pensieri che ci distoglierebbero dalla vera essenza della pratica. Parleremo dello Zen in maniera più approfondita in altra occasione, quindi mi limiterò a raccontare la parabola che raffigura la nascita dello Zen che in India era chiamato Dhiana e, la cui creazione, era attribuita a Maha Kahashpa.
Maha Kahashpa era un seguace del Buddha, il quale, durante un sermone, non fece altro che mostrare un Fiore di Loto; tutti i suoi seguaci si persero in un silenzio che esternava uno sconcertato stupore per l’incomprensibile gesto del Maestro.
Il Buddha osservò attentamente i volti dei suoi discepoli e notò che solo Maha Kahashpa accennò un lieve sorriso di gioia e disse:
“Solo Kahashpa ha percepito il mio messaggio, godendo in silenzio della meravigliosa bellezza di questo piccolo fiore.”
Da allora Maha Kahashpa iniziò a diffondere la sua dottrina che, a differenza delle altre, non si basava sulla parola e sulla lettura dei sutra (testi sacri) ma su una percezione della realtà basata su una silenziosa osservazione, fondamento di quello che era il cosiddetto “vuoto mentale” (sans: shunita, cin: wu, giapp: ku).
LA COMPOSTEZZA
Un guerriero, un samurai era distinguibile per l’eleganza della sua persona e dei movimenti.
La compostezza è simbolo di concentrazione e di rettitudine mentale. Un buon praticante è composto sempre, nel dôjo come nella vita di tutti i giorni.
Nel dôjo, oggi, la compostezza del praticante inizia a manifestarsi già nello spogliatoio nel quale non bisogna avere un comportamento inopportuno e nel quale bisogna rimanerci giusto il tempo di indossare il keikogi.
Nel momento in cui si sale sul Tatami, bisogna chiedere il permesso al sensei o al grado più alto su esso presente, una volta ottenuto il permesso bisogna voltarsi con la schiena rivolta al Tatami e da questa posizione salire prima con il piede sinistro, poi con il destro, salutare l’immagine di O-Sensei e prendere posto in silenzio in ordine di grado, se ciò non è possibile non bisogna disturbare il compagno che è già seduto ed ha iniziato lo zazen (maditazione seduta), ma sedersi al primo posto libero, dopo di che, con schiena diritta e corpo rilassato si da inizio allo zazen fino al comando del sensei.
Durante la pratica della tecnica, è assolutamente vietato parlare con il proprio compagno d’allenamento, distrarsi, salutare amici al di fuori del Tatami o compiere azioni che non siano strettamente legate con l’allenamento (come bere o firmare il registro delle presenze).
Infine, durante la pratica di una tecnica, sia uke, che tori devono mantenere un atteggiamento marziale ed essere sempre attenti a ciò che succede, per salvaguardare la propria incolumità e quella dei propri compagni.
INDOSSARE IL KEIKOGI
Indossare correttamente il keikogi fa parte dell’allenamento ed è indica che si è concentrati fin da quando si entra nello spogliatoio.
S’inizia con l’indossare i pantaloni i quali si legano saldamente in vita facendo in modo che il laccio capiti sulla fascia diaframmatica. Poi si passa alla giacca che si chiude sovrapponendo il lato sinistro a quello destro; infine la cintura, il cui nodo deve essere ben stretto e capitare sul Dan Tien (Tan Dem o in giapponese Hara), vale a dire, tre dita sotto l’ombellico, in effetti, la cintura serviva a spostare l’attenzione del praticante su quel punto.
Bisogna stare attenti che la giacca sia ben sagomata sul corpo e che all’altezza della cintura non vi siano pieghe.
E’ vietato indossare magliette colorate sotto la giacca e calze ai piedi, almeno che non si soffra di problemi epidermici o di qualsiasi altro tipo di male alle estremità inferiori.
L’uso del keikogi è obbligatorio, perciò, è segno di buona disciplina non ritardare i “lavaggi” e di averne cura perché non presenti mai imperfezioni nella struttura, ciò comporterebbe anche l’assunzione d’errate posizioni del corpo.
IL RISPETTO
Sul Tatami esiste una gerarchia che bisogna rispettare, da un lato perché fa parte della tradizione di cui anche noi (e non solo i giapponesi) siamo custodi, dall’altro, affinché sul Tatami sia più facile mantenere la disciplina ed un retto comportamento.
Sono presenti, nel dôjo, tre tipi di praticanti: il primo è il sensei (Sen: prima; sei: nato) il quale è il maestro, è il solo ad avere questo titolo e, ad egli, tutti fanno riferimento. Subito dopo ci sono i senpai (uno degli anziani) i quali hanno un ruolo molto importante, perche sono il diretto contatto tra gli allievi più giovani e l’arte.
Infine, ci sono i kohai (uno dei giovani) rappresentati da tutti gli studenti più giovani.
Tra questi tre tipi di praticanti esistono delle norme d’interrelazione basate sulla gerarchia di cui sopra: il grado più alto è il sensei al quale tutti debbono un gran rispetto come primo rappresentante della scuola e come “simbolo”, in quanto è colui al quale il fondatore, teoricamente, ha lasciato il compito di diffondere l’arte.
Al sensei, principalmente sul Tatami, non si da del “tu”, quindi non lo si chiama per nome; quando spiega una tecnica è assolutamente vietato alzare la mano ed interromperlo per chiedere spiegazioni, è forma di rispetto fare solo ciò che dice il Maestro, quindi, non è possibile rifiutarsi di eseguire una richiesta del sensei, sempre che non intervengano cause di forza maggiore.
Il senpai è una sorta d’istruttore, di norma i kohai intercedono al sensei tramite il loro intervento. I senpai possono essere delegati dal Maestro per eventueli spiegazioni da impartire ai kohai. Se durante l’allenamento di una tecnica si trovano a lavorare insieme un senpai ed un kohai, solo il primo può decidere di cambiare uke.
I kohai sono gli “ultimi arrivati”, gli studenti più giovani che dovranno prestare ascolto e rispettare sia il sensei, che i senpai, non devono assolutamente chiachierare fra di loro sul Tatami durante la lezione, dovranno essere umili nell’apprendimento e rispettare le regole del dôjo.
La gerarchia si mostra anche durante il saluto sia in piedi che seduti: quando si saluta l’immagine del Kami di O-Sensei, l’inchino è molto profondo se in piedi, in seiza, le mani si appoggiano insieme a terra perché al cospetto di O-Sensei non bisogna avere un atteggiamento di guardia, la testa tocca quasi il pavimento.
Quando si saluta un grado più alto l’inchino è medio e le mani, in seiza, seguono l’ordine descritto nel punto “IL SALUTO” se, invece, si saluta un pari grado, l’inchino è molto lieve ma, anche qui in seiza, si deve rispettare l’ordine delle mani.
Credo di aver fatto luce su tutti i punti essenziali dell’argomento; non si vuole essere assolutamente fanatici, ma è giusto rispettare la tradizione che c’è stata affidata ricordando che se la nostra scelta è caduta sull’Aikidô, assieme ad esso si sono scelti anche una serie di elementi tradizionali senza i quali si perderebbe molto del senso dell’arte.
Daniele Petrella
Che ne dite dei maestri che si ordinano i vini e i piatti più cari e poi si fanno pagare tutto dagli allievi, fra l’altro, tutti studenti? Anche questo fa parte dell’allenamento e dell’etica Aikidô?