Aikido come forma del vuoto

Introduzione

L’obiettivo principale di questo studio è analizzare come il vuoto sia elemento fondamentale nella pratica dell’aikido. Attraverso un’analisi del ruolo del vuoto nell’estetica giapponese e in una delle forme d’arte di tale cultura, la cerimonia del tè, si giungerà a chiarire quali forme del vuoto “sperimenta”, “esperisce” e addirittura “usa” il praticante di aikido.

Il vuoto, infatti, viene inteso sia in termini metafisici, come “luogo” e “strumento” della meditazione zen, sia in termini fisici, come “spazio” nel quale realizzare tecniche acquisite con lo studio e l’applicazione.

Lo studio si conclude indicando alcune tecniche dimostrative dei concetti espressi e ipotizzando tecniche non codificate che pure realizzano le teorie analizzate.

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Il concetto di vuoto nell’ “estetica giapponese”

Il termine “estetica” nella cultura orientale assume significati e declinazioni completamente diversi da quelli assunti nella cultura occidentale. Infatti, mentre in occidente l’estetica è una disciplina dotata anche di pretese scientifiche, nell’orizzonte culturale orientale – e in particolare nella cultura giapponese – essa è intesa più come esperienza che come categoria filosofica.

Tipicamente occidentale è la scissione tra teoria e pratica. Per il pensiero orientale, invece, l’idea è già un’azione e l’azione possiede in sé un valore spirituale.

Ciò determina, da un lato, l’astrazione di una teoria del bello, tutta occidentale, in cui si ritrova una bellezza da contemplare o da creare e un soggetto che contempla o crea, mentre dall’altro lato, in una prospettiva di pensiero orientale, l’idea di bellezza in senso astratto non esiste, ne esiste la sua esperienza.

Esempio emblematico di quanto sopra scritto si ritrova nell’ambito dell’ architettura. Infatti nell’estetica occidentale, anche opere di architettura minore portano con sè la frattura tra colui che le progetta e colui che ne dovrà fruire, dando vita in tal modo ad una fruizione dello spazio che non nasce dalla volontà conformatrice di colui i che dovrà fruire dello spazio medesimo ma dalla volontà di colui che per questi l’ha progettata e che paradossalmente non ne vivrà mai.

Nell’architettura giapponese, invece, si assiste molto spesso alla realizzazione di spazi che prendono forma dall’esigenza di accogliere funzioni sia “pratiche” che propriamente “estetiche”. Nel perseguire tale obiettivo il processo di conformazione dello spazio avviene ponendo come prioritario il vivere lo spazio stesso in maniera “piena” , ovvero sia nei suoi aspetti pratici che estetici, ponendo quindi al centro del processo l’esperienza che di questo spazio si farà.

Da ciò discende che possono esistere oggetti e situazioni connotabili come belli ma mai definibili come tali, in quanto essi assumono tale connotazione a seconda del momento e delle circostanze.

Dalle innumerevoli possibilità che scaturiscono dall’esperienza, quindi, discende l’impossibilità -se non la mancanza di necessità – di codificare una teoria del bello, ovvero una teoria estetica.

L’origine di questa teoria- non teoria del bello orientale e segnatamente giapponese affonda le sue radici nel Buddismo Zen, nel quale si ritrova una avversione verso la codificazione in teorie dell’esperienza e una predilezione per tutte le circostanze in grado di produrre un rapporto diretto con l’esperienza stessa.

Il rapporto con la realtà è preferito, quindi, al rapporto con i concetti. Tale tipo di relazione è stata ben focalizzata da Gian Carlo Calza, studioso italiano di culture orientali.

“La civiltà giapponese è un ricettacolo di mezzi toni e sfumature, di spazi vuoti che non vanno subito colmati ma goduti come sono, di un’infinità di arti che hanno come scopo non il prodotto estetico ma l’atto che arricchisce il rapporto. Rapporto con le persone, rapporto con la natura, rapporto con le cose”.

Senza dilungarsi sui contenuti del Buddismo Zen, va sottolineato come esso non debba considerarsi quale generatore di teorie e dottrine riconducibili a forme di esperienza estetica.

Come si è detto per l’architettura, infatti, nella cultura giapponese al centro c’è l’esperienza soggettiva, non una teoria generale cui rifarsi.

Per comprendere il legame che tale dottrina ha con forme ed esperienze estetiche, è necessario tuttavia porre l’accento su uno dei suoi concetti fondamentali: il vuoto.

Anche in questo caso, però, non si tratta del concetto del vuoto, ma dell’esperienza del vuoto. Tale esperienza sta alla base della fruizione di tutte le forme estetiche ed avviene attraverso la pratica della meditazione. In più, non contraddicendo il concetto della necessità della relazione, l’esperienza del vuoto conduce al rapporto con il suo opposto, il pieno. E’ questo uno degli elementi fondamentali del buddismo. Infatti, mentre nella cultura occidentale la comprensione della realtà procede per contrapposizione degli opposti, nella cultura orientale la comprensione/esperienza della realtà procede attraverso la relazione tra essi. Avremo, quindi, tramite l’esperienza del vuoto la comprensione del pieno, tramite l’esperienza della luce la comprensione del buio e così via.

La meditazione quindi , insieme alla relazione, è elemento essenziale per raggiungere l’esperienza del vuoto.

Tecnicamente, nel Buddismo Zen, la meditazione si manifesta nella sua forma più semplificata: non vengono richieste visualizzazioni né concentrazione su oggetti particolari, ma soltanto concentrazione sul respiro ed anche in questo caso non a qualche punto particolare in cui il respiro passa o si trattiene, ma al suo fluire, cioè al movimento della respirazione, alla sua dinamica fisiologica.

E’ evidente come concentrarsi sul fluire della respirazione equivale a concentrarsi su un processo. Meditare, quindi, sul respiro significa intessere una relazione con una parte essenziale di noi stessi e rappresenta un mezzo per “fare il vuoto”. Tale stato non si identifica con la condizione di vuoto, ma con la consapevolezza del processo della respirazione. Tale pratica, eliminando ogni relazione del soggetto con l’esterno, conduce ad uno stato “di vuoto mentale” inteso come quello stato in cui vengono sospese tutte le discriminazioni e le tensioni da esse prodotte. L’azzeramento di tutte le discriminazioni non rappresenta un azzeramento della coscienza, ma contribuisce a produrre una “mente” predisposta ad accogliere qualsivoglia forma di relazione.

Tale stato di coscienza apre la strada a qualunque forma di esperienza, anche di tipo estetico. Ricordiamo qui quelle maggiormente note che sono: la cerimonia del tè, la pittura ad inchiostro, l’haiku, l’ikebana, i giardini a paesaggio secco, il teatro NO. Di seguito si analizzerà una di queste forme: la cerimonia del tè.

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La cerimonia del tè come esperienza del vuoto.

Tralasciando qui la descrizione del rito della cerimonia del tè, ci si soffermerà sugli elementi che ne costituiscono l’esperienza, descrivendola nella sua globalità. Per esperienza si intende quell’insieme di relazioni che il soggetto che si appresta a partecipare alla cerimonia del tè intesserà con gli elementi fisici e “simbolici” che concorrono all’esperienza medesima.

L’esperienza inizia con il percorrere il sentiero che conduce alla stanza del tè. Tale sentiero, detto roji, è costituito da pietre dalla forma incerta, posizionate secondo una modalità detta “a passi perduti”. In pratica, colui che si troverà ad attraversare tale sentiero troverà dinanzi a sé pietre di altezza variabile e distribuite in maniera non prevedibile. Il percorrere un siffatto sentiero obbliga inevitabilmente il soggetto a porre attenzione su ciò che sta facendo, ovvero ad essere tutt’uno con l’azione del percorrere. Affinché ciò accada, il soggetto non può non eliminare dalla mente tutto ciò che in quel momento non è utile all’azione del percorrere. Un percorso siffatto, infatti, non prevede di essere percorso camminando in maniera consuetudinaria, cosa che potrebbe indurre il soggetto a vagare con la mente oltre l’azione stessa del percorrere il sentiero.

Proprio l’esperienza di adattare il proprio cammino alla struttura inusuale e imprevedibile dei sassi, induce, tramite questa attenzione/meditazione, a produrre una forma di vuoto nel soggetto.

Superato il sentiero “a passi perduti”, si giunge nella stanza del tè, detta sukiya. Qui giunti, l’esperienza del vuoto viene amplificata dagli elementi che concorrono alla conformazione dello spazio vuoto che costituisce l’essenza del sukiya. Se è vero, infatti, che l’essenza dell’architettura è data dallo spazio interno conformato dagli elementi che racchiudono lo spazio medesimo, questa circostanza si esprime compiutamente nella stanza del tè.

La stanza del tè, di norma, è costituita da un volume modesto, il cui pavimento è formato da tatami, mentre le pareti e il soffitto sono perlopiù costituiti da piani che si intersecano perpendicolarmente. In particolare, le pareti presentano un’alternanza di pieni e vuoti, superfici opache e luminose dove la luminosità è data da telai leggeri rivestiti di carta di riso che costituiscono porte e finestre e soprattutto diffondono la luce proveniente dall’eterno che caratterizza in maniera omogenea e tenue lo spazio interno del sukiya. Altro elemento importante del sukiya è il tokonoma; esso è un piccolo spazio, solitamente rialzato di un gradino e diviso verticalmente dal sukiya da un elemento ligneo detto tokobashira.

Sulla parete di fondo del tokonoma, troviamo solitamente un elemento decorativo costituito da un’immagine o caratteri calligrafici dinanzi al quale si può trovare una composizione vegetale in stile ikebana.

La fruizione di questo spazio rappresenta un’esperienza del vuoto in quanto l’alternanza di pieni e vuoti, la giustapposizione asimmetrica degli stessi, gli accostamenti cromatici e la matericità degli elementi tutti che costituiscono lo spazio inducono inevitabilmente il soggetto che voglia compiere l’esperienza della comprensione del sukiya a tralasciare ogni forma di attenzione se non quella da rivolgere a tutti gli elementi costituenti questo spazio.

L’esperienza del vuoto nella cerimonia del tè viene ancor più arricchita dal rituale della preparazione del tè. In tale operazione, apparentemente semplice, troviamo ulteriori elementi che amplificano, nel soggetto che ne fruisce, l’esperienza del vuoto. Infatti, il rumore mai uguale a se stesso generato dal bollore dell’acqua che costituisce una vera e propria sonorità generata da piccoli elementi metallici che vengono posti sul fondo del bollitore, emerge relazionandosi con il silenzio che permea il vuoto del sukiya.

Anche quest’ultima, come si può vedere, è una relazione basata su due elementi apparentemente contrapposti (suono/silenzio) ma che in realtà non potrebbero esistere l’uno in assenza dell’altro.

Ancora: la gestualità del maestro del tè, la composizione materica della ciotola ove il tè viene versato, solitamente una ciotola in stile raku, e tutti gli altri utensili che entrano a far parte di questo cerimoniale sono ulteriori elementi che contribuiscono all’esperienza del vuoto.

Tralasciando come tale esperienza viene arricchita anche dall’utilizzo dei suddetti utensili, quello che interessa è cercare di comprendere come essa non possa compiersi se il soggetto non si predispone ad una relazione con tutti gli elementi della cerimonia del tè in cui il vuoto, inteso come predisposizione alla relazione, unica e mai uguale a se stessa, si compia nella mente del soggetto stesso.

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L’aikido come forma del vuoto

Nel capitolo precedente abbiamo analizzato a titolo esemplificativo come la cerimonia del tè rappresenti una delle forme d’arte in cui, attraverso la realizzazione dell’esperienza del vuoto, si giunge ad una esperienza estetica compiuta secondo i dettami del buddismo zen.

I principi riscontrati nell’esperienza della cerimonia del tè, comuni alle altre forme d’arte menzionate alla fine del primo capitolo, sono gli stessi principi che ritroviamo alla base dello studio delle arti marziali tra le quali l’aikido.

La necessità di predisporre la mente alle condizioni di vuoto è principio indispensabile nella pratica dell’aikido. Presupposto fondamentale, che accomuna l’aikido come arte marziale alle altre forme d’arte, è il possesso da parte del praticante di competenze tecniche specifiche che si acquisiscono con studio sistematico e costante.

Inoltre, allo stesso modo delle altre forme d’arte, una volta acquisite tali competenze tecniche, esse costituiscono il bagaglio naturale, quasi inconscio, che il praticante pone in essere nella pratica.

Infatti, allo stesso modo di come un maestro di calligrafia apparentemente compone caratteri “naturalmente”, un pittore del sumie traduce in forme e colori la realtà che lo circonda quasi come se si specchiasse in essa, il maestro del tè conduce la cerimonia compiendo ogni gesto immedesimandosi con esso fino a divenire “il gesto”, così il praticante di aikido nella sua espressione più compiuta agisce “senza tecnica”, in quanto i principi assimilati con lo studio si manifestano nella pratica apparentemente in assenza di essa.

L’espressione massima in cui i suddetti presupposti si manifestano è il randori, ovvero l’esercizio libero in una simulazione di un combattimento reale anche con più uke.

Il praticante di aikido nella pratica del randori deve necessariamente realizzare il vuoto nella propria mente, in quanto in assenza di vuoto non si creerebbero i presupposti “dell’assenza di tecnica”, paradossalmente una condizione di no waza.

Infatti, nel predisporsi ad una esperienza di randori il praticante di aikido non può affrontare tale esperienza premeditando utilizzare una tecnica specifica in risposta ad un attacco di cui disconosce la forma, l’ intensità e la direzione.

In conseguenza di qualsivoglia attacco, nel randori, il praticante non applicherà quindi forme come ikkyo, irimi nage, shio nage ecc o forse le applicherà, ma applicherà certo i principi che sono alla base di tutte quante le tecniche. Infatti, il praticante si disporrà nella condizione del miglior impiego delle energie, dell’esatta misura di forza, velocità e precisione con l’unico scopo di risponde all’attacco con naturalezza.

Per realizzare tale esperienza, la condizione psico-fisica del praticante del randori deve essere tale da essere assimilabile a quella della meditazione nel buddismo zen. Infatti, troviamo tra le due forme analogie di principi: come colui che medita, anche il praticante di aikido si predispone al vuoto attraverso il controllo della respirazione. Il vuoto consente di trovarsi in una costante situazione di consapevolezza che predispone alla realizzazione ottimale del randori secondo i principi sopraesposti.

E’ solo attraverso la consapevolezza indotta dal controllo della propria respirazione che si fa l’esperienza del vuoto e tale condizione è indispensabile per realizzare quel vuoto nella mente che consente di agire tecnica “senza tecnica”.

Non solo. L’esperienza del vuoto nella mente conduce il praticante ad una consapevolezza spaziale tale per cui il vuoto, oltre che esser percepito nella propria mente, viene esperito anche “spazialmente”. Nel randori, infatti, il praticante, oltre a trovarsi un uno stato mentale atto ad accogliere qualsivoglia forma di attacco, deve trovarsi anche nella condizione di percepire l’attacco da qualsivoglia direzione e questo può verificarsi solo se vive appieno “l’istante” affidandosi più che alla determinazione di porre in atto tecniche riconducibili a schemi precostituiti, alla memoria che il corpo ha dell’esperienza, una memoria fisica più che mentale.

Il concetto di vuoto è quindi indispensabile nella pratica dell’aikido, sia come raggiungimento della consapevolezza di sè, che come ricerca di vuoto fisico , lo spazio entro il quale verrà proiettato ukè, luogo in cui la tecnica si realizza.

Tori porta a compimento tutte le tecniche colmando il vuoto spaziale che provvede a creare tra sè ed uke nell’applicazione sapiente della tecnica.

Proposte di lavoro

Si propone di dimostrare quanto sopra attraverso le seguenti tecniche:

Suwari waza

Shomen uchi ikkyo

Tachi waza

Ai Hanmi Katate Dori Udekimenage

Ai Hanmi Katate Dori Kotegaeshi

Katate Dori Shihonage

Katate Dori Tenchinage

Katate Dori Sumi Otoshi

Katate Dori Naname Kokyu Nage

Jodan Tsuki Iriminage

Shomen Uchi ikkyo

Shomen Uchi Kotegaeshi

Shomen Uchi Soto Kaiten Nage

Yokomen UchiKokyu Nage

Ushiro Waza Kokyu Nage

due schemi a piacere

Bibliografia

Giangiorgio Pasqualotto “Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente” Marsilio editore

Gian Carlo Calza “Stile Giappone” Einaudi

Janwillem Van De Wetering “Lo specchio vuoto” Neri Pozza

 



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