Aikido vero

Dopo qualche decennio di pratica (già in considerevole ritardo per fare queste constatazioni), osservando, riflettendo, ci si accorge che se si vuole veramente progredire, non può più bastare una pratica meramente quantitativa, quella generalmente più diffusa sui nostri tatami.

Le tecniche, se si vuole calarle nella realtà, non possono essere più eseguite con la compiacente collaborazione di uke, ma occorre,  supponendo di aver padroneggiato le basi elementari, vedere come effettivamente una tecnica può essere applicata.

Esistono diffusi luoghi comuni, attraverso parole anche esotiche, la cui conoscenza non risolve il problema, anzi finisce per aumentare la perplessità. Occorre invece cominciare sostanzialmente daccapo; uno studio ex novo la cui necessità ci siamo illusi di schivare e che invece ci fronteggia, a prezzo del ridicolo.

Credo che questo sia un tipo di lavoro, infinito anche per i maestri, che da solo conferisce senso alla pratica dell’aikido e senza il quale la stessa è, appunto, insensata.

Con le riflessioni che seguono proverò ad additare, mi auguro con chiarezza, una parte di quello che viene detto e non detto, sovente mistificato sull’argomento.

Una delle prime parole che abbiamo sentito nella nostra pratica è “ki”.

Questa parolina l’abbiamo fatta passare come una formula magica, l’asso nella manica per la vera efficacia nella tecnica. Ingolositi dalla prospettiva, abbiamo cercato come impadronirci del ki e così abbiamo sentito risuonare un’altra parola: “kokyu” il cui approfondimento avrebbe dovuto schiuderci la porta del ki. Con ki e kokyu nessuno ci fermerà.

Sono molto grato al maestro Ikeda Masatomi, ora purtroppo lontano dai tatami, per aver mostrato fin da tempi non sospetti, che le cose sono tutt’altro che semplici, nonostante una pratica ritengo più che seria,  improntata all’approfondimento degli esercizi connessi a quelle esotiche paroline.

Non che quelle paroline siano sbagliate, tutt’altro, solo che non vanno trattate da “luoghi comuni” e da un certo punto in poi, il lavoro necessita più che di forme o di altre forme, di autointrospezione.

Un altro possente luogo comune riguarda il fatto di eseguire le tecniche “senza forza muscolare”.

Credo che ben pochi siano veramente in grado di non contrarsi, incontrando rigidità nel corso dell’esecuzione di una tecnica. Anche visualizzando l’avversario già a terra, come pur fondatamente suggerisce il maestro Tada, senza “altri accorgimenti”, puoi facilmente imbatterti in un paio d’occhi che ti guardano con ironia, mentre hai esaurito l’espirazione senza alcun successo.

Sicuramente, si dirà, è una questione di “timing”, non si è colto il momento giusto per entrare.

L’asserzione è verissima in quanto tempo giusto ed aikido sono sinonimi, ma come si fa ad essere nel tempo giusto, soprattutto direi di fronte ad un attacco non programmato? Non parliamo poi di quando l’attacco è programmato e … aite ci ridicolizza. 

Anche per questo c’è risposta: “AIKIDO ASSOLUTO”,  parole magiche, che funzionano si, ma soprattutto nelle mani del loro mentore, Tada sensei, manco a dirlo.  L’aikido assoluto però è un punto d’arrivo e non di partenza.

Sicuramente i sistemi additati dal maestro Tada sono un viatico, forse il viatico, ma rimane a noi di percorrere la strada, che non potrà essere percorsa se non attraverso una individuazione di noi stessi e solo dalla nostra individualità.

Chi di noi è identico al maestro Tada?

Quello che lui ha fatto, noi, ringraziandolo per le preziose indicazioni ed apprezzandone l’esempio, dobbiamo farlo a nostra volta, ma con i nostri mezzi e caratteristiche individuali.

Significativamente lo psicologo Carl Jung soleva dire, che  non aveva capito niente di lui chi si definiva junghiano. Così non si diventa il maestro Tada, per ammesso che sia possibile, riproducendone gli stilemi estetici (quella mano alzata proprio così…..) o eseguendo, senza discernimento, con letteralismo quantitativo, le sue proposte di training.

Nondimeno occorre applicarsi, proprio con quella determinazione e coerenza di cui Tada sensei fa sfoggio, a costruire dentro di noi il “vero aikido”, quello che ci esprime e si esprime attraverso di noi.

Il mio maestro Pasquale Aiello, che nella sua assoluta modestia, qualche pezzo di percorso in quella direzione di efficacia individuale l’ha fatto, ha parlato spesso di accorgimenti.

In effetti un primo livello di risorse da utilizzare, sono appunto degli accorgimenti di natura meccanica, sia statica che dinamica. Quell’utilizzo del mignolo, quel passo avanti o indietro, quella visione assiale del corpo sia proprio che altrui, quell’impiego dei fianchi o dell’anca che si apre…..

Sono, oltre che principi, come afferma Christian Tissier, 7° dan, particolari spesso invisibili. “Piccoli movimenti, grandi risorse”dice il maestro Tamura.

Ebbene, questi particolari, se presi a se stanti, senza una centratura, possono ugualmente risultare inutili.

L’accorgimento ulteriore è l’utilizzo anche inerziale del corpo come un tutt’uno, fondendovi  i cosiddetti accorgimenti, ma non solo “in partenza lanciata” ovvero in kinonagare, bensì anche in kihon, con presa solida. La sottolineatura di questo particolare aspetto è uno dei meriti della scuola Iwama ryu.

Però, come già detto, il tempismo è determinante e qui il concetto non è di tempo cronologico, bensì di “momento giusto”; è la differenza tra kronos e kairos, dove il secondo è tempo significativo, tempo coincidente.

Per poter sentire il tempo sincronistico ed essere tutt’uno con esso (nella griglia della pratica aikidoistica) occorre la massima sensibilità del corpo e dei sensi, dove l’utilizzo della forza fisica ottunde proprio quella sensibilità, che necessita di decontrazione massima. Il Kinorenma è una fucina formidabile per accrescere tale sensibilità.

Qui cominciamo ad uscire dal luogo comune e il concetto di ki  inizia a disvelarsi. Ki non è o non è soltanto un fattore energetico, ma è anche (e non solo)  una modalità con la quale si esprime l’intenzionalità dell’individuo, proprio nell’accezione di Bergson.

L’intenzionalità ha bisogno anche di fiducia nel mezzo (nel nostro caso nel combattere a mani nude come se fossimo degli schermidori) e di fede nella nostra capacità di attuarlo.

Ovviamente, solo la mia sfrontatezza intellettuale mi consente –un pò come resumè delle cose sentite- di parlare di ki. Alcuni maestri, pur veramente attrezzati come Tissier, non ne parlano mai.    

Anche se la similitudine è indubbiamente significativa, così come la esprime il maestro Tada, pienamente appagante del Suo livello, ritengo che per noi ci sia differenza tra l’ostacolo che incontra il pennello, scivolando sulla tela e un aite, vivo e vitale, nonché felicemente poco collaborativo.

Il tempismo va incarnato nella dimensione corporea tridimensionale e nelle sue direzioni; sotto, sopra, avanti, dietro, destra e sinistra. Rispetto ad un partner non telecomandato, arretrando o avanzando, salendo o scendendo, deviando a destra o sinistra e anche accoppiando insieme queste direzioni, che si crea o si coincide (dal punto di vista dell’io o del Se) con il “tempo giusto”. La sensibilità-tempistica nell’accordarsi con le direzioni, viene accresciuta da uno degli esercizi telepatici classici del Kinorenma, felice peculiarità didattica del maestro Tada. Inoltre, ad esempio, oltre che avanti-dietro, “direzioni” possono essere anche prima-dopo, se siamo capaci di identificare il ritmo di respiro di uke.

Il senso di aiki, la modalità della tecnica dei Takeda che affascinò Osensei, diviene il baricentro su cui la sensibilità-unione con l’altro, deve trovare il suo tempo significativo e di riuscita. Essa deve essere necessariamente preceduta dalla sensibilità-unione con Se.

Inoltre, un tempo significativo non può essere il tempo della distruzione dell’altro. Per lo meno non lo decide l’io, se voglio essere in armonia con le leggi universali, ancor meno se si parla di amore. L’armonia nell’individuo precede la possibilità di riversare amore verso gli altri e dall’aikido sembrerebbe che la vera armonia con le leggi universali, metterebbe al riparo dal disamore particolare dell’altro.

Da qui la conseguenza che “la tecnica uke se la tira addosso da solo” e non sono io che decido di applicarla, perché se decido per poi agire, sono già fuori tempo. Io ho la possibilità di sbagliare, con una decisione che sia “fuori tempo”, perché fuori dal fulcro significativo della situazione e della dinamica, in quel dato momento. Quello che invece scaturisce dal Se non sbaglia, interpretando ciò che è giusto al momento giusto, anche contro i desideri unilaterali dell’io.

Il Se non si preoccupa di nascita e morte essendo atemporale e perennemente tutt’uno col flusso della Vita. L’io non vuole morire anche se ogni evoluzione di livello, postula prima la perdita di quello precedente e ciò è ancor più evidente in aikido. Non ci sarà alcun vero progresso se non ci sbarazziamo delle certezze  -false- accettando di sprofondare nel vuoto dell’incertezza.

Da quel “vuoto”, finalmente accettato, fluisce la Vita. Ma dobbiamo farlo noi, con le nostre mani, non pensando come i cattolici che Gesù Cristo abbia sofferto al nostro posto, così non credendo da aikidoisti di trasformarci nel maestro Tada o in qualche altro shihan, semplicemente applicandone i precetti e senza ripercorrerne in pieno l’esperienza.      

Cercare dentro se stessi ad un certo punto è essenziale e tutti gli spunti possono contribuire a chiarire la nostra peculiare intenzionalità, il nostro ki. Come dice Nietsche, noi abbiamo solo la possibilità di diventare ciò che già siamo e non la copia di un altro. Per questo in aikido, come in politica e in fatti di religione gli integralismi andrebbero banditi, in quanto ogni diverso carisma può di volta in volta, nelle differenze di personalità, farci progredire sulla strada della consapevolezza, vero unico mezzo e scopo dell’aikido.

O no? 

 Avv. Angelo Armano



One Comment

  1. Gabriele wrote:

    Bell’articolo.
    Concordo su tutto

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