L’armonizzazione del Sé nella pratica dell’aikido


L’ aikido è un’arte marziale nata alla fine dell’800 grazie alla profonda dedizione, nonché intuizione, del maestro Uyeshiba, si tratta di una tecnica giapponese atta a controllare eventuali attacchi da uno o più fonti armate o non, senza dichiarata intenzione di terminare il confronto danneggiando l’avversario.

La si può considerare probabilmente come l’ultima vera arte marziale, nata, quindi, con lo scopo di essere praticata principalmente sui campi di battaglia, scopo per la verità, condiviso anche da altre discipline, (judo, karate, ecc.) che però, la radicale trasformazione dei tempi, ha depurato dall’obiettivo principale ossia quello di dover cercare il confronto attraverso la guerra.

Oggi, infatti, si sente sempre più spesso parlare di discipline orientali come sport di squadra, come di quelle attività che possono essere praticate anche all’interno del complesso ed articolato carné olimpico, in grado di arricchire, con soddisfazione, il medagliere delle nazioni partecipanti.

Ma l’aikido, no.

Questa pratica non fa parte delle discipline comunemente praticate in ambito olimpico, perché essa non si è evoluta per dar vita a campioni o per essere messa sulle prime pagine di quotidiani e riviste sportive, il suo è un percorso un po’ più discreto ma non per questo meno articolato e roboante di altri, si tratta infatti di un processo spirituale che porta i praticanti a ricercare, attraverso la sua intrinseca filosofia, l’armonizzazione dei propri rispettivi Sé, lanciati in una lotta di non prevaricazione ma di completo rispetto dell’altro.

L’aikido, secondo la definizione del maestro Branno, è un “self-defence” per eccellenza, ossia è una difesa da se stessi, è un modo quindi, che l’individuo ha per mettersi a confronto col proprio Io ancor prima di entrare in contatto con l’Io dell’avversario.

Si dà vita, quindi, ad una comunicazione intima che allontana il concetto di prevaricazione per stimolare la sovraespressione del Sé in accordo col “principio di integrità”, uno dei principi inspiratori che consente ai praticanti di allenarsi al massimo delle proprie potenzialità senza ledere i rispettivi compagni ma consentendo loro addirittura di essere di aiuto e di supporto.

Nell’aikido ci si fida, non ci si affida.

Quest’affermazione ha una notevole implicazione psicologica, perché non ci si può fidare di qualcuno, se prima non si ha piena fiducia nelle proprie capacità e quindi in se stessi, non si può essere complici di chi si teme.

Nelle arti marziali, l’obiettivo principale dei praticanti, infatti, non è quello di dimostrare la propria superiorità, perché è una nozione inscritta ormai da tempo nel loro assetto di personalità bensì è quello di crescere insieme, è quello di portare l’altro ad assumere il proprio punto di vista per poi scambiarlo, in un continuo intreccio di rimandi che, proiettandosi sugli schermi delle rispettive menti, si irradia in un flusso di intenzioni e di riflessi, fisici, mentali e corporei, che portano, alla fine, entrambi i membri della diade ad arricchirsi della relazione con l’altro.

Questo in parallelo, è in sostanza quello che avviene nella stanza dello psicoterapeuta, dove la psiche del terapeuta fa da specchio alle paure e alle tensioni del paziente, in un altalenante rimando (questa volta più simbolico che corporeo), del problema denunciato, alle volte latente, che è sempre fardello di sofferenza per chi lo porta, anche qui, quindi, c’è un crescere insieme profondo, disinteressato, imprescindibile che porta gli uomini a viversi e a vedersi nella propria umanità nonché nel totale rispetto di ciò che si è.

Nell’aikido si impara a sentire quello che succede nell’altro, come nella psicoterapia si impara a sentire ciò che ci dice l’altro riflettendo in particolar modo sulle sensazioni che l’incontro ci suscita in quanto persone prima e psicologi poi.

L’empatia, dunque, trionfa su entrambi i piani di realtà.

L’aikidoca accoglie l’avversario, come l’avversario accoglie lui, il terapeuta contiene il paziente, come il paziente contiene il suo terapeuta, senza danno alcuno su entrambi i fronti.

Ciò è possibile solo se alla base c’è una perfetta armonizzazione del proprio Sé, solo se gli istinti riescono ad essere incanalati in uno schema di personalità armonico ed equilibrato.

Se tutto ciò è portato avanti con coscienziosità e con profonda onestà intellettuale, il ritorno di immagine o lettura dell’Io all’esterno, confluirà in un’autostima soddisfacente che potrà costituire il primo nucleo fondamentale di materiale antipatogeno.

Praticare le arti marziali, non significa smettere di avere paura, per il maestro Branno, infatti, praticare l’aikido, significa “smettere di avere paura di avere paura”, interessante tautologia che rimarca appieno l’inderogabile necessità del “recede in te ipsu” senechiano, ossia del calarsi in se stessi per trovare in se stessi la forza di sconfiggere le proprie paure.

I veri guerrieri, infatti, sono quelli che riescono ad accettare l’idea della sofferenza, l’idea del rischio, l’idea dell’altro, sono quelli che riescono ad accettare se stessi attraverso gli altri, compito che non sempre necessita l’uso di un abito specifico quale il kimono; chi è superiore sceglie di essere tale, sceglie di non reagire di fronte ad una provocazione, ma non perché è il colore della cintura che indossa durante gli allenamenti a farlo sentire più forte ma perché ha imparato a gestire se stesso, ha imparato a controllare il proprio corpo, la propria fisicità e la propria instintualità, attraverso la pratica di un paziente esercizio educativo.

Le arti marziali sono, dunque, educazione: educazione del corpo dalla mente e della mente dal corpo.

L’esercizio fisico unito ad un altrettanto sano allenamento mentale, in quanto praticato all’interno di una relazione, comporta sempre l’impiego nonché l’espressione di un concetto molto importante in ambito psicopatologico: quello dell’helpness (del chiedere aiuto).

Praticare l’aikido non significa ferire il proprio compagno, non significa mortificare con la propria forza l’avversario di turno, un comportamento simile sarebbe completamente inammissibile e poco ortodosso, snaturerebbe, inoltre, il senso profondo della disciplina, fare aikido, invece, significa mettere nelle condizioni psico-fisiche giuste chi ci fronteggia, offrendogli l’occasione unica in ogni incontro di chiedere aiuto e di ricambiarlo a sua volta.

Basti pensare a quanto l’helpness sia deficitario in tutte le psicosi e nelle patologie del carattere per renderci conto dell’importanza e della necessità di strumenti atti a promuoverlo, le arti marziali in tal senso, paradossalmente potrebbero essere proprio uno di questi.

Nelle discipline orientali non si accettano sfide, perché non si avverte la necessità di dover dimostrare di essere i migliori, lo si è, lo si sa, lo si dice a se stessi quotidianamente.

La vita offre a tutti noi la possibilità di scendere in campo per dimostrare il proprio valore, e in questo essere judoca, aikidoca o karateca non fa differenza, la differenza la fa il nostro Io, ovvero la nostra capacità di sopportare le frustrazioni, le offese, le ingiustizie e le prevaricazioni, senza per forza dover rovesciare la nostra amarezza sugli altri, provocando loro danno.

L’insegnamento dell’aikido, come quello di qualsiasi altra disciplina orientale, si basa sulla sconfitta, per poterlo praticare bisogna saper perdere, chi non è in grado di tollerare ciò, può nel tempo educarsi a ciò, con sacrifico, accettazione, abnegazione.

Accettare le sconfitte, infatti,  significa essere muniti di un Sé sufficientemente forte e formato da poterle tollerare, realizzare ed elaborare senza profonde ripercussioni su tutto l’assetto psichico della persona.

Scegliere di praticare un’arte marziale è un po’ come scegliere di avventurarsi in un sentiero sinfonico a più voci dove la principale è quella della propria coscienza, imparare ad ascoltarla rispettando le regole che vengono dettate sul tatami, è la vera sfida, così come scoprire che da soli non si è nessuno ma che si è forti in due nella relazione, è il vero insegnamento.

Diventa quindi naturale pensare al potenziale educativo e formativo di una disciplina quale l’aikido che, insegnando a difendere e non ad offendere, porta i praticanti a comunicare col Sé, con gli altri e col mondo intero abbattendo, quindi, quelle barriere ideologiche ed immaginarie intrise di odio e pregiudizi che molto spesso, portano gli uomini a considerare diverso ciò che diverso non è ma che appare tale soltanto perché ci si ostina a filtrare gli eventi della vita attraverso lenti non calibrate e, dunque per questo, poco obiettive.

In conclusione mi sembra doveroso riportare una storia raccontata dal maestro Lippiello che illustra molto bene come si pensa nel mondo orientale:

C’era un serpente che minacciava i contadini di una
comunità, ad un certo punto il maestro Zen del villaggio convinse
questo serpente a non usare la violenza e, ovviamente, i contadini,
da quel momento, incominciarono a prendere il sopravvento sulla povera
bestiola tirandogli sassi, schernendolo e bistrattandolo a proprio piacimento.
Dopo un po’, il serpente tornò dal maestro e gli disse:”ecco i frutti del
tuo discorso sulla non violenza, prima ero temuto e rispettato, adesso,
invece, sono oltraggiato”! 
Il maestro saggiamente gli
rispose:”io ti ho detto di non uccidere, non, di non sibilare”.

Dott. Ferragina
Psicologa- rapporti tra psico analisi ed Aikido

 



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