Intervista a M. Mochizuki

Nota. Minoru Mochizuki, nato a Shizuoka nel 1907, fondatore dello Yoseikan-budo, 10° dan di Aikido (IMAF), 7° dan di Judo, 4° dan di Karate, detentore di innumerevoli gradi e diplomi in tutte le discipline di combattimento conosciute (compreso boxe e scherma), cominciò la sua formazione da piccolo, praticando judo e kendo. Fece rapidi progressi, nel 1925 entrò nel Kodokan dove divenne agonista di alto livello. Sotto la tutela di Jigoro Kano, M.M. divenne un membro del Kobudo Kenkyukai, una organizzazione fondata all’interno del Kodokan per lo studio delle arti marziali classiche, ove praticò Katori Shinto. Nel 1930, fu inviato da Kano a studiare aiki-jujutsu sotto Morihei Ueshiba. Poi Mochizuki divenne uchideshi (studente interno) al dojo del Kodokan per un breve periodo e aprì un suo dojo in Shizuoka nel novembre 1931.

Più tardi passò 8 anni in Mongolia dove venne addestrato al karate. Nel 1951 viaggiò per la Francia insegnando judo e aikido e fu il primo a diffondere quest’ultima arte in Europa. M.M. è il fondatore di un sistema marziale composito chiamato Yoseikan Budo che include elementi di judo, aikido, karate e kobudo. Nel 1978 ha scritto ‘Nihonden-jujutsu’.

Domanda: Mochizuki-sensei, la sua prima disciplina fu il Judo?
Risposta: E’ vero. Cominciai l’anno prima di entrare alle elementari. Ma quando arrivai in quinta, traslocammo e dovetti interrompere. A fianco della nostra nuova abitazione c’era un dojo di kendo e così continuai con quello. Ricominciai il judo alle medie e dopo qualche tempo mi iscrissi al Kodokan per specializzarmi. L’anno prima, però ero entrato nel dojo di Sampo Toku. In quei giorni la gente del judo diceva: “Come tecnica c’è Mifune, ma il diavolo del Kodokan è Sampo Toku”. Era un insegnante molto forte e faceva paura. Il suo dojo era situato in Komatsugawa. In quel periodo vivevo con mia sorella che aveva casa nelle vicinanze. Mi allenai per circa 6 mesi prima di traslocare di nuovo e entrare nel Kodokan diventando un judoka (praticante di buon livello).
Nel periodo in cui studiavo judo con il “diavolo” Sampo Toku (1924), praticavo anche un vecchio stile chiamato Gyokushin-ryu Jujutsu. Questo sistema utilizzava molte tecniche di sacrificio e altre simili a quelle dell’aikido. In quel periodo, il maestro di Gyokushin-ryu, Sanjuro Oshima, viveva vicino a noi. Questo maestro era abbastanza rattristato nel vedere gli stili classici del Jujutsu sparire uno ad uno ed era così determinato a far sì che la sua arte si conservasse da chiedermi che la imparassi. Andavo a casa sua, senza pagare per l’insegnamento e mi offrivano anche la cena, questo è il motivo per cui ho studiato Jujutsu.

D: Le venne riconosciuto un grado in quest’arte?
R. Dopo circa 6 mesi ricevetti un certificato di shoden kirigami mokuroku, equivalente al 1° dan del Judo. Questo segnò la fine del mio rapporto con quel maestro, ma di quel giorno ricordo ancora le sue parole: “Il nome della nostra tradizione è Gyokushin-ryu, scritto con ideogrammi che significano ‘spirito sferico’. Una palla rotola liberamente; non importa da che parte viene spinta, rotolerà via. Questo è il vero spirito che il Gyokushin-ryu cerca di instillare nei suoi praticanti. Se tu hai ottenuto questo, niente in questo mondo ti potrà disturbare”. In quel periodo ero ancora un bambino e quindi non comprendevo bene. Semplicemente immaginavo un cuore o uno spirito che rotolava qua e là. Non fu prima dei 50 anni che compresi cosa significasse lo spirito sferico del Gyokushin. Ci vogliono 50 anni di allenamento per essere in grado di capirlo. L’avevo ignorato per molti anni.

D: Quali altre arti marziali ha praticato?
R. Kendo. Ho dimenticato il nome del mio maestro; ma ricorderò sempre che una volta mi disse: “Quando avevo 13 anni partecipai alla famosa battaglia di Ueno. Guardati! Hai dodici anni, vero? Che cosa ti aspetti, debole come sei, di essere abile di maneggiare la tua spada l’anno prossimo?”. Questo era l’insegnante che avevo per il Kendo (La battaglia di Ueno del 1868 vide sconfitti 2.000 samurai che avevano rifiutato di accettare i negoziati di pace tra lo shogun e l’imperatore).
Quindi, nel maggio 1926, mi iscrissi al Kodokan e in giugno fui ufficialmente promosso primo dan. Questo perché a qualsiasi gara partecipassi battevo regolarmente i dan che avevo di fronte. Ma credo di essere stato praticamente cintura nera molto prima di quando la ricevetti. Difatti fui promosso 2° dan in gennaio, solo sei mesi dopo. L’anno dopo fui 3° dan. Probabilmente ero forte come la maggior parte dei terzi dan per tutto il periodo in cui fui nidan. Dopo tutto, io praticavo da prima di incominciare le scuole.

D: Com’era l’allenamento al Kodokan?
R. Circa in quel periodo, una delle mie sorelle viveva a Tsurumi nella prefettura di Kanagawa ed era così gentile da farmi vivere con lei. Tutti i giorni prendevo il treno e andavo al Kodokan a praticare. Quindi venne il kangeiko. Cominciava ogni mattina alle 4 (fino alle 7) per un mese. Ovviamente, non c’erano mezzi a quell’ora, quindi l’unica cosa che potevo fare era camminare. Era proprio una discreta distanza così dovevo uscire a mezzanotte per arrivare in tempo. Ed eccomi che ciabattavo rumorosamente lungo la vecchia strada del Tokaido nei miei pesanti geta. Quando giungevo nelle vicinanze del Kodokan, cominciavo ad incontrare altri, il gi stretto nelle cinture e gettato sopra le spalle, che diligentemente si dirigevano dalle loro case al Kodokan. Qualcuno era davanti e sicuramente sarebbe arrivato prima. Bene, ero sulla strada da mezzanotte e non ero disposto a farmi battere, al punto da incominciare a correre. Quando mi vedevano correre incominciavano a correre anche loro! Comunque, alla fin fine camminando e correndo per tutta la strada, arrivavo madido di sudore. C’era un piccolo pozzo la cui superficie era sempre ghiacciata. Rompevo il ghiaccio, mi buttavo l’acqua sul corpo dalla testa ai piedi e correvo nel dojo a praticare. Bene, un giorno il secchio non c’era. Non avevo tempo da perdere a cercarlo o sarei arrivato in ritardo, così semplicemente saltai nel pozzo per pochi secondi. Quando stavo per tirarmi fuori dal buco sentii qualcuno aiutarmi con la mano. Indovinate chi era? Mifune-sensei!
Ero alquanto sorpreso e mi irrigidii. Naturalmente ero coperto di ghiaccio. Finalmente riuscii a dire buongiorno. Guardandomi in faccia sensei chiese cosa diavolo stessi facendo. Risposi, un po’ titubante, che mi stavo risciacquando. Probabilmente sensei era preoccupato, perché mi diede una salvietta e mi disse di asciugarmi. Quindi mi domandò come mai mi ero tuffato nell’acqua fredda. Gli spiegai che dovevo camminare tutti i giorni da Tsurumi. Al che Mifune-sensei disse: “Stanotte puoi dormire a casa mia. Sei pazzo, ti rovinerai la salute in questo modo!”Da quel giorno rimasi in casa sua per il kangeiko, in pratica, diventai uno dei suoi famigli. In quel periodo, c’erano molti studenti che vivevano a sue spese per imparare il Judo, ma ovviamente sensei non poteva ospitarli tutti. Quando giunsi c’erano altri tre che vivevano lì. Mi mise in una stanza di solo tre tatami e c’erano già altri due che ci dormivano ed erano decisamente belli grossi! Non c’era spazio per distendere il mio giaciglio, così l’unica cosa che potei fare fu di sdraiarmi fra di loro e dormire. Era caldo a sufficienza perché avevo le coperte degli altri sopra di me, ma durante la notte quando si muovevano le tiravano, e ogni tanto mi svegliavo perché ero scoperto.

D: Che relazione aveva con Mifune-sensei?
Durante il giorno sensei ci raccontava spesso storie delle diverse arti marziali. Questa fu una cosa buona per me in quanto imparai molto sul Judo. E’ stato spesso detto in quei tempi che non c’era possibilità per lo studente che non resideva al dojo di avere un attestato. In altre parole tale studente non sarebbe mai riuscito ad ottenere il diploma di menkyo-kaiden, livello di maestro autorizzato all’insegnamento. Gli studenti esterni venivano a una certa ora per praticare e quando l’allenamento era finito ritornavano a casa. D’altro canto gli uchi-deshi respiravano judo per 24 ore al giorno e ricevevano la tradizione attraverso le storie raccontate dall’insegnante. Si arrivava a comprendere l’idea spirituale dietro alla pratica dell’arte e io imparai molto.

D: Ci potrebbe dire qualcosa di Kano-sensei e della sua filosofia?
R. Vi racconterò una storia su di lui. Tra i suoi studenti più vicini c’era un uomo eccellente che si chiamava Okabe, molto intelligente e anche forte nel judo. Però questo signor Okabe insisteva che il judo era uno sport: “Se il judo non è sport, non è niente”. Ora Kano-sensei amava davvero questo studente, ma sentiva profondamente che il judo non doveva essere considerato uno sport. Come sai, nei paesi stranieri ci sono chiese che si curano di insegnare come condurre una vita morale. In Giappone non abbiamo istituzioni simili, il cui lavoro consista nell’instillare tale senso di moralità e allora Kano-sensei inventò il judo che incorporava in una forma di allenamento fisico un metodo di allenamento morale. Realizzò questo nel periodo in cui gli studenti dovevano veramente impazzire dalla fatica per recuperare il vantaggio dell’Occidente e in conseguenza molti di loro si ammalavano. Molti morivano di malattie polmonari.
Kano-sensei formulò il vecchio sapere del jiu-jitsu nel judo, cioè trasformò queste forme in uno sport perché diventasse possibile praticare attività fisica nell’atmosfera particolarmente speciale che troviamo al dojo. Noi facciamo distinzione tra seniors, cioè tra più vecchi, e più giovani e cose del genere; il do della parola budo porta il significato di virtù o moralità… questo è quello di cui si tratta nel dojo. E’ un posto in cui coltivi la virtù, mentre ti alleni nelle tecniche di combattimento. Essenzialmente si tratta di virtù. Questa è la ragione per cui questo studente e Kano-sensei avevano degli scambi di opinione così forti e non contava quanto Sensei spiegasse il suo punto di vista, l’altro insisteva e faceva commenti del tipo: “Un’arte che non sta ne di qua né di là, questo è inaccettabile. Vincere e perdere nel judo è sport e lo sviluppo della personalità è lo sviluppo della personalità. Non c’è bisogno di qualsiasi forma di coltivazione morale nello sport, viene naturalmente mentre sei impegnato nell’attività”. Questo uomo ricevette una certificazione come istruttore di educazione fisica e rimase estremamente teorico.
Tutto ciò fece pensare Kano-sensei: se la persona pratica solo il judo, gli apparirà che la sua arte sia solo uno sport. Per questa ragione egli propose al Kodokan un allenamento alle arti marziali classiche e volle un dojo particolare, costruito per questa ragione. Voleva mostrare le arti marziali a chiunque fosse interessato e potesse praticarle regolarmente. Pensava che se fosse riuscito a far comprendere lo spirito della tradizione, si sarebbe potuto sviluppare e conservare quello del budo, adattato ai tempi moderni. Questa è la ragione per cui arrivò a fondare il Kobudo-kenkyukai, l’associazione di ricerca per le arti marziali classiche.

D: Come entrò a far parte di questo gruppo?
R. Era il tempo in cui stavo in casa di Mifune-sensei e anch’io sentivo il bisogno di impegnarmi in un allenamento di tipo spirituale, così mi unii al gruppo di ricerca. A quel tempo io ero 2° dan di kendo, così sapevo già come usare la spada: il lavoro di piedi e come estendere le braccia. Così ero avvantaggiato rispetto a chi conosceva solo il judo. Questo mi permise di essere notato da Kano-sensei, che disse: “Hai il fare di un leader” e mi invitò a scrivergli a una volta o due al mese sui progressi del mio allenamento.
Mi disse un giorno: “Sarai insegnante al Kodokan”. Ne fui veramente impressionato. A quei tempi Mifune-sensei e Sampo Toku-sensei erano tra i grandi maestri del Judo. Mi chiedevo se avrei mai potuto raggiungere tali altezze. Poi un giorno, dopo che avevo finito il mio rapporto, Sensei mi fece questa domanda: “Che cosa pensi significhi il carattere ju della parola judo?”. “Significa flessibile, soffice” risposi. “E poi praticare judo solo essendo flessibile e soffice?” egli riprese. Ora ero incastrato: naturalmente se sei solo soffice, perderai sempre “Quello che stai facendo non è judo, ma ‘godo’, la via dura, e quella non funzionerà mai. All’interno della flessibilità c’è rigidità e all’interno della rigidità c’è flessibilità. Jiujutsu è la maniera di controllare ciò che chiamiamo durezza e morbidezza attraverso la fusione di questi due concetti essenziali. A quel tempo ero solo un ragazzo di ventun anni e così potevo ascoltare pensando che in qualche maniera capivo quel che voleva dire, eppure non capivo, dato che il ju è qualcosa che è molto razionale, è un concetto abbastanza intellettuale.

D: Ci sono altri ricordi che riguardano la filosofia di Kano-sensei?
R. Un giorno partecipai a una gara all’università Nihon e la vinsi. Nel primo pomeriggio si svolgeva un’altra gara a Meiji, a cui partecipai e vinsi. Eccomi là con due medaglie in un giorno. Ero ancora un ragazzo ed ero veramente felice di ciò. Mi dimenticai completamente che avevo appuntamento con Kano-sensei e corsi dritto a casa. Quando vi giunsi, mia sorella chiese se non avevo promesso di andare a casa di Sensei. Corsi fuori e saltai sul treno che tornava in città prima di realizzare che avevo dimenticato il portafogli. Non dimenticai mai quanto fossi imbarazzato a salire sul treno. Esitai e finalmente spiegai l’intera storia al conducente che gentilmente acconsentì a lasciarmi viaggiare (la corsa era fuori dall’abbonamento scolastico e il giovane non aveva denaro).
Mi sentivo veramente a disagio, comunque arrivai verso le 16,30 di corsa a casa di Sensei, mentre il mio appuntamento era per le 14. Sensei era un uomo molto occupato, il tipo di uomo che pianificava la giornata di lavoro dedicandosi a molte cose e così ero molto preoccupato di come mi avrebbe sgridato duramente. Con questi pensieri andai ad incontrarlo. Kano-sensei aveva 70 anni e quando sentì che ero finalmente arrivato, indossò l’hakama per incontrarmi. Egli in effetti si cambiava e indossava l’abbigliamento formale anche solo per incontrare uno studente di 50 anni più giovane di lui. Mi guardò in viso per qualche secondo e poi mi chiese se ero ammalato; gli spiegai come ero arrivato dal vincere le due medaglie. Dev’esserci stato un tocco di orgoglio nella mia voce perché il tono di Sensei cambiò completamente: “Ma che cosa pensi che siano queste gare?” Io avevo vinto e non potevo capire perché lui non ne fosse contento. Egli continuò: “Noi scriviamo la parola ‘shiai’ con caratteri che significano ‘provare insieme’. Shiai è una parte dell’arte che permette di misurare i limiti del tuo progresso in un qualsiasi momento. Ma lo devi fare 2 volte in un giorno?”
Io ero andato solo per vincere e non avevo proprio pensato all’idea di verificare i miei progressi nell’arte. Sensei continuò: “Hai una concezione errata dal Judo. La gara non è un gioco che fai per divertirti; con questo atteggiamento non sarai mai un buon istruttore”. Sebbene ci fosse una grande differenza di età, Kano-sensei si occupava di educarmi per il mio futuro.

D: Come fu coinvolto con Ueshiba-sensei?
R. A quel tempo praticavo Katori Shinto-ryu nel programma del Kobudo Kenkyukai. Quest’arte include spada, bastone, naginata, yari, wakizashi, il maneggio di due spade e tecniche di jiujutsu. Facevo anche Kendo, così giravo 4 o 5 diversi dojo e mi allenavo 5-6 ore al giorno. Inoltre, prima di colazione studiavo Shindo Muso-ryu Jojutsu (la tradizione del bastone) in cui progredivo velocemente. Fu in quel periodo che Kano-sensei vide una dimostrazione di Ueshiba-sensei dietro invito dell’ammiraglio Isamu Takeshita. Ne fu molto impressionato. Disse a Ueshiba-sensei che gli sarebbe piaciuto mandare alcuni dei suoi studenti ad allenarsi con lui. Ecco come venni mandato là.

D: Racconta le tue impressioni iniziali.
R. Dapprima considerai la cosa solo come un’aggiunta alla mia già occupatissima giornata di allenamento. Kano-sensei ci aveva detto: “L’altro giorno ho avuto la possibilità di vedere personalmente le tecniche di un insegnante di Juijutsu che si chiama Ueshiba. La sua tecnica é veramente magnifica. Ho provato la sensazione che essa sia la vera tecnica del Judo. Mi piacerebbe avere Ueshiba per insegnare al Kodokan, ma é un famoso maestro, con molti allievi e questo é impossibile. Così ho sistemato le cose per mandare alcuni dei nostri ad allenarsi con lui”. Segnò con gli occhi che gli sarebbe piaciuto che andassi io. Così toccò andare a me e un altro allievo che si chiamava Takeda.
Questo accadeva nel 1930 quando Ueshiba-sensei non aveva ancora un dojo e insegnava nella sala di una casa privata a Mejiro di Tokyo; ma appena dopo che avevamo iniziato ci trasferimmo tutti a Ushigome-dojo, che era appena terminato (il presente Aikikai-hombu-dojo). C’era Hajime Ikkusai Iwata di Haishi, un tipo che era stato lottatore di Sumo, e anche il giovane Tsutomu Yukawa. 5-6 persone in tutto. Ueshiba-sensei disse a me che ero il vero principiante: “Questi uchideshi sono ancora dei ragazzi così mi piacerebbe se dessi loro un occhiata”. Avevo 24 anni in quel periodo.
Sentendo ciò, riportai a Kano-sensei: “Ueshiba-sensei mi dà un grande valore e così probabilmente otterrò abbastanza rapidamente un Menkyo-kaiden. Che cosa pensa del suo chiedermi di vivere con lui e di essere una sorta di supervisore che sorveglia il gruppo dei giovani?” Kano-sensei rispose: “Dicono che non ci sono licenze di insegnamento per studenti esterni. Cosi penso che vada bene quello che t’ha proposto. Semplicemente non dimenticare il tuo rapporto mensile”. Così ebbi il suo permesso di diventare uchideshi. L’unica condizione era che continuassi a frequentare le classi di studio sulle arti marziali classiche, come prima. Così immediatamente divenni uno degli assistenti di Ueshiba-sensei e non venni mai istruito da lui direttamente. Ad ogni nuova tecnica Sensei correggeva gli altri individualmente; me, mai. Io guardavo la tecnica e semplicemente la ripetevo come lui. Sensei diceva che ero la persona di cui aveva meno di cui preoccuparsi: io guardavo e capivo. La ragione era che avevo fatto un sacco di altre arti marziali e così ero in grado di comprendere subito.
Un giorno mi chiamò l’ammiraglio Takeshita. Voleva informarmi che Ueshiba-sensei era interessato ad avermi come genero concedendomi in moglie sua figlia e permettendomi di assumere il nome Ueshiba. Che cosa dovevo fare? Mi era già stata chiesta la stessa cosa da parte del Maestro di Katori-shinto-ryu e inoltre c’era il presidente di una compagnia farmaceutica che era venuto dalla prefettura di Shizuoka per chiedere alla mia famiglia di lasciarmi sposare qualcuno della sua. Avevo veramente poca esperienza anche solo a parlare alle ragazze che non fossero le mie sorelle. E certamente non avevo mai pensato al matrimonio. Così rifiutai tutte e tre le offerte.

D: Avesti la possibilità di incontrare Sokaku Takeda sensei?
R. L’unica volta fu quando venne ultimato il dojo Ushigome. Ueshiba-sensei era uscito e avevo incarico del dojo fino al suo ritorno. Sensei, sua moglie, suo figlio Kisshomaru, il signor Inoue, ognuno era andato da qualche parte, insomma non c’era. Proprio allora si fece avanti Takeda-sensei: “Ueshiba, sei là?” gridò con voce veramente paurosa. Quando uscii scoprii questo nonnetto, che stava davanti a casa. Dissi educatamente: “Ho paura che tutti siano usciti”. “Oh” disse questi e fieramente entrò, poi se ne andò di stanza in stanza e volle che io aprissi tutti gli scorrevoli. Dappertutto; perfino in cucina e nella camera della signora; alla fine sedette nel tokonoma (alcova d’onore) e con voce tonante chiese del the verde. Proprio mentre stavo preparandomi a farlo, lo sentiti correre verso di me. “Fermo, farò da solo” mi disse. Prese i contenitori che usiamo per l’acqua, e li pose sulle fiamme per un pochino; poi prese le foglie e le mise nei contenitori per tostarle. Stava facendo il shenjicha, cioè il the abbrustolito. Mise l’acqua calda e versò il the nelle tazzine, comandandomi di berne un poco. Dissi educatamente: “Dopo di voi signore” ma egli sbottò: “Quando servi il the è educazione bere per primi”. Beh, questa era veramente la prima volta che sentivo dire una cosa del genere. Egli non aveva fiducia neanche del the che si era fatto da solo. Era molto strano in effetti. Successivamente mi chiese se c’erano dolci o qualcosa da mangiare. E aprendo uno degli armadi trovò una scatola e la prese da solo. Anche questa volta me ne offrì uno prima di lui e disse: “Prima di servire un invitato devi mangiare un poco di cibo per primo, in modo da mostrargli che non è avvelenato”. Finalmente si era spiegato. Io ne presi uno e lo mangiai. Sensei allora prese quello che era stato accanto al mio. Lui era estremamente cauto e io veramente sorpreso.
Iniziò a parlare della vecchia casa di un signore feudale: “Ma qui vicino non c’è la casa di Mizuno?” e voleva dire la proprietà di Jurozaemon Mizuno, un signorotto molto fiero della sua forza e del suo potere e che aveva vissuto centocinquant’anni prima, ma lui ne parlava come se fosse accaduto ieri. Gli risposi che avevo sentito parlare di un posto che si chiamava Mizuno-no-hara e allora Takeda-sensei mi raccontò questa storia.
“Hai mai sentito di un tempo in cui Shunzo Momoi di Kyoshin-meichi-ryu (1826 – ‘86, caposcuola presso di cui Sokaku Takeda si allenò qualche mese nel 1876 – ‘77) e Kenkichi Sakakibara di Jikishin-kage-ryu, furono chiamati dall’Imperatore Meiji (Mutsuhito, 1852 – ‘912) e chiese loro di tagliare il famoso elmetto Myochin (nome di una famosa scuola di fabbri) con le loro lame? In termini di abilità i due uomini erano abbastanza pari, ma avevano con loro spade diverse. Shunzo Momoi disponeva della la spada che usava ogni giorno, ma Sakakibara aveva una spada che assomigliava alla lama di una grande alabarda (nagynata) e riuscì a intaccare l’elmetto. Questo fu dovuto completamente alla differenza di armi e non aveva a che fare con la differenza di abilità”.
Mi fece sedere ad ascoltare tutto ciò. Dato che sembrava difendere Shunzo Momoi, supposi che Takeda-sensei dovesse essere stato uno dei suoi studenti. Quando stavo per chiederglielo, sentii un forte grido all’entrata: “Saluti!” e mi alzai per vedere chi era. Vidi un guidatore di taxi. Sembrava che Takeda non avesse pagato il taxi e il guidatore veniva a chiedere cosa dovesse fare. “Ma come è successo ciò?” chiesi e il guidatore spiegò: “Il vecchio che è entrato qui poco fa, l’ho trovato alla stazione di Ueno e mi chiese quanto sarebbe costato andare a Wakamatsu-cho (dove c’era il dojo) e gli dissi circa uno yen. Disse: ‘Oh’ e salì. Ma non appena ci stavamo muovendo, chiese di portarlo ad Asahigashi, in direzione completamente opposta e così uno yen non bastava per il viaggio, ma ne occorrevano due. Quando gli dissi che il prezzo era doppio si arrabbiò da matti”. Il guidatore era davvero impaurito: “Quel vecchio aveva una spada con sè. Lo vidi quando era alla stazione di Ueno e io stavo aspettando che qualcuno salisse sul taxi e quel vecchio venne avanti. C’era un grande cane che camminava per strada e lui lo uccise. Un solo gesto, proprio così…” Spiegò. “Il cane non ebbe neanche il tempo di emettere un gemito, era morto sul posto, trafitto dritto al cuore”.Dopo quell’esibizione, quando Takeda si arrabbiò per la tariffa più alta, il guidatore di taxi, veramente temette di essere la prossima vittima. E allora Takeda sensei si era allontanato senza problemi. E cosa dovevo fare io? pagare due yen. Da allora posso dire che il famoso Sokaku Takeda-sensei mi deve due yen; immagino che perlomeno questo mi assicurerà un posto nella storia!. Più tardi, quando diedi un’occhiata al bastone che aveva appoggiato nel tokonoma, mi accorsi che terminava con la punta di uno yari.
Comunque quel sobborgo Asahigashi, era la sede del vecchio dojo di Momoi e questa era la ragione per cui Takeda-sensei aveva voluto deviare dalla strada per arrivare al dojo Ueshiba. Per nostalgia. Comunque nella biografia di Takeda-sensei non sembra esserci niente che riguardi Momoi. E infatti quasi all’opposto c’è scritto che Takeda venne ammesso al dojo Sakakibara e studiò Kendo. Io trovavo tutto questo molto strano e inoltre Takeda mi racconta che, diciassettenne, aveva affrontato il maestro Momoi in tre occasioni, battendolo due volte. Ma non disse una parola su Sakakibara, e parlò soltanto del primo.Beh, il nostro intrattenimento continuò circa tre ore. Sembrava rilassarsi mentre parlava. Disse che aveva caldo con quel kimono e se lo tolse per asciugarsi il sudore. Attorno allo stomaco aveva una striscia di stoffa e mentre la srotolava cadde sui tatami (del pavimento) una lama, che non era contenuta in una montatura, ma semplicemente infilata tra due giri di stoffa. Vidi sulla pancia di Sensei un certo numero di cicatrici. Il suo stomaco era rilassato e la pelle faceva delle pieghe, tanto che appariva difficile appoggiarvi quella lama e muoversi normalmente senza tagliarsi. Comunque non sembrava far caso alla cosa.
Takeda sensei rimase al dojo per una settimana circa e un giorno il sig. Kamada disse: “Che cosa si può fare con un vecchio come quello?”. Risposi: “Prova a giocare a shoji (scacchi giapponesi)”. Ma Takeda non sapeva giocare. Quando stavate per catturargli il re, vi afferrava una mano per impedire di togliere il pezzo dalla scacchiera. Era molto competitivo e odiava perdere. La mia personale impressione di lui fu davvero cattiva. In questi giorni suo figlio sta continuando la sua arte nell’Hokkaido. E’ ancora abbastanza giovane. Suppongo che Sokaku-sensei dovesse avere quasi 60 anni quando nacque il figlio.

D: E l’atteggiamento di Ueshiba verso Takeda?
R. Era un modello del comportamento tra allievo e insegnante. Se Takeda urlava, Ueshiba gli faceva buon viso e rispondeva immediatamente: “Sì, signore”. Lo serviva personalmente e non permetteva di farlo neanche a sua moglie. Così si sentiva gridare: Ueshiba, il bagno è caldo?” e la risposta arrivava subito: “Sto scaldando l’acqua, signore”. E gli strofinava la schiena, e cucinava i suoi pasti, senza chiederci mai di fare qualcosa. Dice un vecchio detto: “Imparando da un Maestro, il servizio è la cosa più importante” e Ueshiba-sensei lo impersonava alla lettera.

D: Come sei arrivato a fondare il tuo dojo a Shizuoka nel ‘31?
R. Poco prima mi ammalai gravemente. Semplicemente lavoravo troppo. Dovetti ritirarmi dalla pratica per circa un mese e dormire. Kano-sensei era preoccupato per me, tanto da chiedere ripetutamente a un ospedale di ricoverarmi e il Kodokan era disponibile a coprire le spese. Nel frattempo venne a Tokyo per portarmi a Shizuoka e così espressi il mio grazie profondo a Kano-sensei per la grande gentilezza e lasciai Tokyo. Entrai all’ospedale di Shizuoka per 3 mesi. I dottori furono sorpresi per la velocità della mia ripresa. Soffrivo di tubercolosi polmonare e pleurite. Ma ogni giorno il dottore poteva vedere il mio recupero.
Nello stesso anno mio fratello e altri costruirono un dojo al centro della città. Temevano che morissi se fossi tornato a Tokyo. Convalescente, avrei dovuto ricominciare lentamente, insegnando ai giovani della città finché mi fossi ristabilito. Poi la voce di tutto ciò raggiunse Ueshiba-sensei e altri; tutti furono così gentili da venire alla cerimonia di apertura del dojo.
Dopo ciò, ogni mese, quando Ueshiba-sensei andava ad insegnare al dojo della religione Omoto-kyo, si fermava da me lungo la strada anche al ritorno. Quando arrivava Ueshiba-sensei facevo del mio meglio per servirlo. Dormivo con lui nel dojo. Normalmente mi alzavo presto al mattino per cuocere la colazione, ma talvolta Sensei preparava lui il riso, così uscivo a comprare il tofu (formaggio di soja) per la zuppa e altro. Sembrava che fossimo due amici a una scampagnata, a vederci cucinare insieme in quella maniera.
Una mattina, dopo che eravamo stati insieme nel dojo, Sensei disse: “Mochizuki, c’è un qualcosa di strano in questo posto. Un fiume scorre sotto la casa”. Pensai che fosse uno scherzo, così dissi che non c’era nessun fiume proprio al centro della città. “Lo so – disse – ma qui c’è dell’acqua che scorre, questo è un fatto”. Lasciai cadere lo strano discorso di Sensei e non feci seguito. Circa un mese più tardi, la gente della casa vicina, si fece viva: “Ci spiace disturbarvi, ma vorremmo scavare un buco in mezzo al dojo”. Chiesi perché diavolo volessero farlo e quel tizio spiegò che il sistema di fognature locali passava direttamente lì sotto. Sembrava che le tubature fossero ostruite dal fango e che l’acqua non riuscisse a passare. Nel sonno Sensei era riuscito a percepire quel piccolo flusso, non certo perché facesse rumore (Sensei era anche famoso per accorgersi se qualcuno aveva immerso la mano nell’acqua del suo bagno per verificarne la temperatura). Per fare ciò che quel signore chiedeva, dovemmo letteralmente scoperchiare il pavimento e scavare le fondamenta fino a un tombino di ferro e poi pulire i residui che bloccavano la fognatura. Cose di questo tipo accadono continuamente con Sensei.
A volte si fermò volentieri con noi per qualche giorno. Talvolta Kisshomaru veniva a prenderlo, ma veramente Sensei amava molto questo dojo. Sensei mi aveva in grande simpatia e avrebbe voluto che sposassi sua figlia, ma la mia ambizione era viaggiare il mondo e così declinai l’offerta.
Nel ‘32 mi diede due rotoli, attestati di trasmissione. Uno è lungo 2 iarde e l’altro circa 3. Quello lungo è intitolato ‘Goshinyo-no-te’ mentre l’altro inizia: ‘Hiden-ogi-no-koto’. Non penso che viva un’altra persona che abbia ricevuto questo tipo di certificato da Sensei. Tomiki-sensei ha ricevuto il suo certificato solo poco prima di me.

D: Anche Tomiki conobbe Jigoro Kano e Ueshiba.
R. Ho incontrato proprio un paio di giorni fa uno degli studenti di Tomiki-sensei e abbiamo parlato di un sacco di cose. Tomiki-sensei e mio fratello sono nati lo stesso giorno e per questo sono amici intimi. Io non gli fui mai così vicino. Egli praticava aikido 5 anni prima che io iniziassi e così era un po’ più esperto nell’arte rispetto a me. E poi era uno studioso e io compresi molte cose attraverso i suoi scritti. Ma io penso che talvolta si sia ingannato e sono il tipo di persona che a un certo punto lo dice. Chiarivo le cose abbastanza francamente anche con Ueshiba-sensei e, dopo essere stato sgridato per come pensavo, meditavo sull’argomento della discussione. A dir la verità, ebbi due volte la meglio nella polemica con Tomiki-sensei. Una volta fu in relazione alla maniera in cui si dovrebbe estrarre. Mentre mostrava come sfoderare la spada, corressi il suo metodo sbagliato. In un’altra occasione polemizzai sulla sua proposta di convertire il budo in sport (l’accademia di Tomiki pratica una sorta di randori di Aikido). Gli dissi: “Sensei, tu puoi fare questo, ma io non ti seguirò”. Egli contrattaccò: “Ma se non le convertiamo in sport, alcune arti come l’aikido soffriranno e moriranno”. I miei sentimenti sulla materia sono esattamente l’opposto: penso che queste arti moriranno proprio il giorno in cui si convertiranno in sport. Lo spirito sportivo enfatizza il sentimento di vincere o perdere e considera l’educazione fisica come una preoccupazione secondaria; inoltre è totalmente indifferente all’educazione del carattere. Esattamente all’opposto del budo. Se le nostre discipline dovessero sfociare nel grande oceano sportivo è certo che si inquineranno di acqua salata fin dai primi passi.

D: Cosa pensava Kano del Judo-sport?
R. Sia Kano-sensei, che Ueshiba-sensei insistevano che il metodo educativo del budo non dovesse essere trasformato in gioco. Il famoso storico Arnold Toymbee una volta scrisse: “La cultura è qualcosa che si forma in un certo luogo, ma se cresce e si diffonde e diventa un fenomeno mondiale contemporaneamente cesserà di esistere nel paese di origine. Inoltre non tornerà mai nel suo posto di nascita. Questa è la realtà della storia”. Il buddhismo in India, il cristianesimo in Israele, il confucianesimo in Cina, sono tutti buoni esempi. Questo è qualcosa che dovremmo tener presente considerando il budo. Se l’Aikido e il Judo arriveranno a far parte del mondo degli sport, essi certamente diventeranno diversi, verranno in una certa maniera mortificati da quei giochi che si basano sul perdere e vincere, considerando il più forte e il più debole. Il loro valore come educazione spirituale e comunque sviluppo del carattere, sarà perso. E il budo sarà finito.
E’ bene che il Budo si diffonda nel mondo, ma non dovrebbe venire sopraffatto dallo spirito sportivo del concetto di gioco. Quanto Ueshiba e Kano avevano in comune era Wa-no-seishin, lo spirito di armonia. Significava lo sviluppo reciproco di se stessi e degli altri: tu e il tuo partner progredite crescete, andando avanti insieme. Negli sport la situazione è diversa e si tratta in qualche maniera di fregare l’avversario e venirne fuori alla fine come un unico vincitore. Questo è lo spirito dello sport. Questo non farà mai il caso del Budo. I tempi sono cambiati e adesso noi sentiamo la gente chiedersi: “Gli Stati Uniti vinceranno? o forse vinceranno i sovietici?” e parlando di queste cose si arriverà all’estinzione della razza umana. La mentalità sportiva porterà il mondo alla fine, perché non contiene lo spirito di saggezza in se stessi e di aiutare gli altri. Agli occidentali è stato insegnato lo spirito di salvezza dalla religione, ma noi qui in Giappone non impariamo questo nelle nostre chiese e nei templi. Il Budo metto un’enfasi pesante sul problema dello sviluppo del carattere, per prevenire comportamenti errati specialmente nel caso dei giovani. Quando lo dissi a Tomiki-sensei, non rispose, non disse niente. E continuò come se il mio dire non fosse degno di una risposta; un balordo come me non meritava risposta, perché i giovani richiedevano questo, il mondo va in questa direzione e tutto dovrà finire bene. Una situazione tipica che porta alla delinquenza è quando un giovane abbandona la squadra con cui ha praticato a lungo. Però questo non riguarda i coach, gli allenatori, che si preoccupano solo di chi gioca per vincere e non perdere. Non fanno attenzione a chi si perde per strada, perché non contribuisce alla vittoria. Negli sport non c’è posto per i deboli o per i meno abili. Personalmente vedrei piuttosto diversi sport adottare lo spirito del Budo, in modo da diventare più centrati, più interessati allo sviluppo spirituale e alla premiazione del comportamento corretto. Essi dovrebbero preoccuparsi che i giovani non combinino guai, che si formino una professione e diventino maturi per metter su famiglia.
Parlando di amore, automaticamente si riconosce il suo opposto, che è odio; se parliamo di armonia, dobbiamo includere il concetto di ragione. Il sentimento d’amore non può reggersi da solo, deve adeguarsi a un comportamento, a un’etichetta adeguata (rei-gi). L’amore deve il rispetto. E’ come dice il proverbio: “persino tra gli amici migliori, deve prevalere l’etichetta adeguata”. Anche tra sposi, questa è una necessità e significa un: “Buon giorno!”, ogni giorno. Recentemente l’etichetta è stata legata a emozioni formali e si è diffusa questa morale, questo comportamento sociale. Ma nella realtà questa è una falsa maniera di comportarsi. I vecchi dicevano che l’ideogramma di ‘persona’ è composto da due tratti che dipendono mutuamente l’uno dall’altro. Questa è una citazione di saggezza. “Gli esseri umani sono animali sociali”. Noi mangiamo riso perché esistono i contadini e senza di loro dovremmo produrre il cibo da noi stessi. In altre parole ci aiutiamo gli uni con gli altri. Questo concetto di ‘tu per te e io per me’ è scorretto. L’armonia consiste di emozioni e di ragione, questa è la natura dell’armonia. Il Budo insegna l’etichetta, cioè il comportamento corretto e la ragione, la maniera di dirigere lo spirito. Nei paesi stranieri questi valori vengono insegnati in chiesa

D. Lei fu il primo a insegnare Aikido in Occidente; andò in Francia nel ‘51?
R. Si, prima di partire andai a salutare Sensei. Eravamo molto vicini, come padre e figlio, così non c’era il formalismo che esiste tra studente e insegnante. Andai dritto nella sua stanza e dissi: “Sensei, stò partendo per l’Europa”. Rispose: “Allora il sogno si avvera, con la tua partenza l’Aikido diventa mondiale”. Sembra che per 3 notti avesse sognato un cane che lo avvertiva che uno dei suoi studenti sarebbe andato in Europa e questo viaggio iniziava la diffusione dell’Aikido nel mondo. “Verrei anch’io e allora il sogno si adempirebbe”.
Giunsi in Europa prima che il Giappone riacquistasse lo status di nazione sovrana dopo la sconfitta nella 2a guerra mondiale e così dovetti viaggiare col passaporto fornito dallo SCAP (consiglio generale delle forze alleate). Trascorsi due anni e mezzo in Francia, dove insegnai Judo e un pochino di Aikido. Assistetti ai primi campionati europei di Judo (1951) e nel break di 30’ tra le semifinali e le finali mi domandarono una dimostrazione. Richiesi 6 tipi un po’ forti, armati di bokken o di bastoni, che avrebbero dovuto attaccarmi contemporaneamente. Se qualcuno fosse riuscito a colpirmi, doveva avere un premio. Così feci irimi e bum bum, li buttai giù tutti. Non sapevo che una compagnia americana riprendeva l’avvenimento con le prime telecamere e poi distribuì il filmato in tutto il mondo. In conseguenza mi arrivarono molte lettere come quella che mi proponeva la carica di funzionario per l’educazione fisica del Ministero dell’Istruzione argentino. Divenni famoso anche in Giappone e mio figlio che assisteva al cinegiornale in una sala gridò: “Ehi, ma quello è mio padre” e portò successivamente i parenti a vedermi.
Una volta, preparando una gara, dissi agli allievi di venire ad allenarsi di domenica, ma mi spiegarono che dovevano andare in chiesa. Fui sorpreso di udire ciò. Non pensavo che i giovani andassero in chiesa. Chiesi loro se si annoiassero ad ascoltare ogni volta le stesse storie su dio. Risposero: “Sensei, gli esseri umani sono animali che dimenticano”. “Capisco – pensai tra me e me – io talvolta dimentico gli insegnamenti dei sensei e dei kami. E litigo con mia moglie e coi miei fratelli”. Dimenticare… penso davvero che avessero ragione. Mi vergognai, riflettendo sul mio comportamento. A noi capita spesso di ascoltare storie che riguardano i kami, perché gli esseri umani tendono a dimenticare. Per la prima volta compresi perché Kano-sensei spiegava l’importanza della Via mentre insegnava Judo e Ueshiba-sensei menzionava i kami nella lezione di Aikido. Sentii che questo era il vero significato delle arti marziali.
Dopo il mio viaggio in Europa, altri uchideshi di Ueshiba-sensei cominciarono a visitare paesi stranieri e l’Aikido si è diffuso in tutto il mondo. A dire il vero finii nei guai con Ueshiba-sensei dopo il mio viaggio di trenta’anni fa. Quando tornai gli dissi: “Sono andato oltreoceano a diffondere l’Aikido e ho combattuto con molte persone diverse, con cui era molto difficile vincere solo con la tecnica dell’Aikido”. In quei casi istintivamente attingevo anche al Judo e al Kenjutsu per uscire dalla situazione. Ero giunto alla conclusione che le tecniche di Daito-ryu jiujitsu non erano decisive. Certi lottatori non si facevano impressionare dalle proiezioni, si rialzavano e venivano più vicini; il boxeur supera molto le tecniche di pugno e calcio del karate. L’Aikido potrà diffondersi internazionalmente se il suo bagaglio tecnico si espanderà per essere competitivo con altri sistemi di combattimento. Dopo aver spiegato questo, Sensei disse: “Quanto dici parte dalla considerazione di vincere o perdere”. Risposi: “Per vincere bisogna essere forti; ora che l’Aikido si espande, penso che sia necessario essere teoricamente e tecnicamente in grado di sostenere qualsiasi sfida”.
Ueshiba mi sgridò: “La tua maniera di pensare è errata; naturalmente non si deve essere deboli, ma questo non è tutto. Non capisci che non è più tempo di badare al vincere o perdere? Questa è un’epoca d’amore, non riesci a vederlo?” Questo mi disse guardandomi diritto negli occhi. Io non ero ancora in grado di afferrare quanto lui disse, ma gradualmente, passando il tempo, tutto divenne più chiaro e oggi condivido questa opinione. Negli ultimi quattro o cinque anni abbiamo visto il mondo muovere gradualmente verso la guerra che dicono potrebbe ridurre la popolazione a un terzo del suo numero presente. In una tale atmosfera, come possiamo giocare in termini di vincere o perdere? Oggi sento sinceramente, dal più profondo del cuore, che è il Budo quello che voglio diffondere; sento fortemente che bisogna raggiungere la gente con il pensiero di Ueshiba-sensei, ed è necessario disporre della tecnica che trasmette queste cose, evitando troppi discorsi.

D. Ebbe contatti con l’hombu-dojo dopo la guerra?
R. Finita la guerra Ueshiba-sensei voleva tornare a Tokyo e mi chiese se potevo sistemare le cose parlando al sig. Minoru Hirai che era divenuto responsabile del dojo Ushigome durante la guerra. Dovevo ottenere il dojo per Sensei e chiedere al giovane Gozo Shioda di trasferire il suo dojo un pochino più distante, dato che la sua vicinanza avrebbe disturbato. Quelli mi ascoltarono, ma finii per sentirmi un pochino imbarazzato su questa faccenda. Vedi, O-sensei e Kissomaru-sensei mi avevano già chiesto di prendere la direzione del dojo, dato che Kissomaru stava lavorando in un’agenzia di borsa. “Questo causerà dei guai in futuro”, disse la mia intuizione e così rifiutai di venir coinvolto. In anni recenti il sig. Koichi Tohei, ebbe lo stesso tipo di difficoltà, come raccontò in una lettera distribuita al pubblico nel ‘74, al tempo della sua separazione dall’Aikikai Hombu-in cui diceva che, dopo aver lavorato tanto per l’Aikido, si trovava, con grande disappunto, escluso.
Avevo sentito per istinto che una tale situazione avrebbe portato guai. Avevo percepito il ki negativo e evitato la situazione. Scrissi al sig. Tohei per chiedergli se non era stato in grado di comprendere in anticipo. Io posso frequentare l’Hombu-dojo in qualsiasi momento, ma dubito che il sig. Tohei possa fare altrettanto. Così per il ki, devo essere più avanti di quanto sia lui.
Recentemente il Kokusai-budo-in, un Istituto internazionale di Budo, mi ha raccomandato per il 10° dan di Aikido. Dissi che non potevo accettarlo senza l’approvazione della famiglia Ueshiba. Andai quindi a parlare di questo e Kisshomaru-sensei riconobbe che ero qualificato per avere questo grado. Riteneva che suo padre sarebbe stato d’accordo. Allora c’erano circa diciannove 8° dan. Ma avevano solo studiato l’Aikido e non avevano la mia esperienza di altre arti. Così non potevano superare quel grado. Lo standard è fisso. Così il 10° dan del sig. Tohei se lo è dato da solo. C’è una persona che vive a Shangai (si riferisce a Michio Hikitsuchi) che si dice 10° dan, ma il suo grado non viene dal dojo principale. Sembra che Sensei sia andato a trovare quella persona molto tempo fa e abbia commentato: “Ah, sei già 10° dan!” e quella persona sembra abbia registrato quel commento e lo abbia portato all’Hombu chiedendo una certificazione che gli venne rifiutata.

D. A che cosa si dedica in questi giorni, Sensei?
R. Scrivo molto. Per quanto riguarda il Judo assistiamo al boom dell’arte, ma Jigoro Kano-sensei è stato dimenticato. E qualcuno afferma che il principio di ji-ta-kyo-ei, non serve a vincere in gara. Per questa ragione attacco il Kodokan, di cui sono il principale oppositore. Io sono tenuto a chiarire e diffondere il pensiero di Kano-sensei e Ueshiba-sensei. Ma il tempo sta scorrendo e ciascuno di noi ha questo limite. C’è poco tempo.

D. Sensei, insegnate ancora ogni giorno?
R. Si, ho istruttori per il karate e per l’Aikido. Li aiuto, commentando un pochino. L’allenamento di Aikido è tre volte alla settimana e così il Karate. Il venerdì facciamo insieme per comunicare le esperienze. Anche se i due gruppi restano divisi. Oggi sembra prevalere una mentalità analitica che dividere le cose anziché unirle, che deriva dal pensiero europeo.

D. Ha l’opportunità di incontrarsi con altri studenti di Ueshiba del periodo ante-guerra?R. Si, l’Hombu ci invita spesso. Tomiki-sensei era il più anziano del gruppo, ma è morto recentemente. Ora sono il più vecchio. Vengono i signori Iwata, Shioda, Yonekawa, Shirata, Kamada e pochi altri. Ma nessuno è come Ueshiba-sensei. Jigoro Kano-sensei era veramente un uomo apprezzabile. Che tanto Ueshiba che Kano abbiano trasformato il Jiu-jitsu e il Bujutsu in arti che fioriscono nel mondo è un tributo al principio morale del ‘tutti insieme per crescer e progredire’. Senza alcun dubbio il più importante messaggio di questi tempi è dovuto a loro. Fui veramente fortunato ad averli entrambi come insegnanti e per questo giungo le mani a ringraziare i kami, anche se è poco per quanto ho ricevuto.

(dojo Yoseikan di Minoru Mochizuki, in Shizuoka, 22 novembre ‘82)
Articolo apparso su Kyu-Shin Do N. 43 del 30 Aprile 1997 e N. 44 del 30 Giugno 1997



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