Aspetti della comunicazione nella cultura nipponica

 

In realtà uno sviluppo delle forme di comunicazione non verbale e paraverbale si era già evoluta, in maniera piuttosto evidente, nelle culture orientali.

La stessa loro semantica si è in un certo qual modo sviluppata considerando, di pari passo, il supporto di altre forme di comunicazione. Riferendoci espressamente alla lingua giapponese notiamo subito, nella struttura verbale, la mancanza del genere e del numero degli oggetti, la assoluta mancanza di coniugazione dei tempi verbali, il fatto che i verbi vengano inseriti sempre soltanto al termine di una frase, ci dimostrano come non sempre sia possibile intuire il significato reale di un discorso estrapolandolo da tutto il suo contesto. In ogni modo, questa peculiare caratteristica dell’aspetto grammaticale della “lingua del diavolo”, e cioè che una frase acquisti un senso alla fine della stessa, rende comprensibile come si sia sviluppato in maniera maggiore nella cultura giapponese rispetto a quelle occidentali, la capacità di ascoltare senza interrompere l’interlocutore.

D’altra parte la complessità grammaticale, che assicura una maggior chiarezza nella comunicazione di primo livello, è stata messa da parte a favore di una differenziazione linguistica a seconda dei piani relazionali. Mi spiegherò meglio. Sebbene non esista differenza di terminologia per indicare in maniera chiara se stiamo parlando di “un” oggetto o di una “molteplicità” di oggetti, esistono ferree regole da rispettare per scandire se si sta parlando con una persona di rango più alto o più basso e se a parlare è una donna o un uomo.

Se si parla con un sottoposto è d’obbligo l’uso dell’imperativo; se si parla con un superiore è indispensabile prodigarsi in formule di cortesia. Non sembrerebbe una cosa molto diversa, perlomeno, dalle nostre forme arcaiche.

Ma mentre la nostra struttura del periodo resta immutata, ed a cambiare sono soltanto i tempi del verbo e l’aggiunta di alcuni intercalari di cortesia, nella lingua giapponese l’intera organizzazione grammaticale della frase viene stravolta a seconda che ci si rivolga ad un “KOHAI”, ad un “SEMPAI” o ad un “SENSEI”.

Quindi, traducendo un dialogo tra due giapponesi, difficilmente sapremo se essi si riferiscono ad una donna specifica o alle donne in generale, ma sapremo immediatamente il tipo di relazione che intercorre tra loro. Stranamente, ma forse non troppo, l’evolversi di una comunicazione prevalentemente incentrata sul rendere l’idea del contenuto piuttosto che raccontarlo, ha portato con sè lo sviluppo di un modo di scrivere ovviamente non sillabico, bensì pittografico.

Gli ideogrammi che vengono correntemente utilizzati nella lingua scritta, non sono semplicemente i simboli grafici di un suono, ma vere e proprie rappresentazioni di un’idea. Eseguiti rigorosamente non solo per numero di tratti, ma anche per proporzioni ed addirittura per verso della pennellata, essi racchiudono dietro ogni parola una intera visione delle cose che senz’altro influisce sulla personalità dei nipponici.

La “Forza” è rappresentata dall’unione di due ideogrammi: uno che rappresenta una ciotola di riso, ad indicare l’energia tratta dagli alimenti, ed un altro che rappresenta la respirazione, per indicare l’energia scambiata con l’universo. Associata con l’ideogramma di “Campo” indica  “La forza che coltiva i campi” e cioè l’uomo.

Quello che indica l’idea di “Donna” si compone dell’ideogramma di “Armonia” racchiuso in quello di “Casa”. Dunque la donna è “L’armonia all’interno del focolare domestico”. Salta immediatamente agli occhi come la stessa interpretazione delle parole “Uomo” e “Donna” racchiuda all’interno una prima identificazione dei loro ruoli.

Nell’architettura giapponese un’importanza preponderante è rivestita non solo dall’arredamento, ma prevalentemente dagli spazi vuoti.

così come nella comunicazione “ciò che non viene detto è forse più importante di ciò che viene detto”, nella architettura i “Vuoti”, che offrono una situazione di spazio e rilassamento, sono importanti forse più dei “Pieni”.

Un discorso analogo vale per la Pittura Zen. Ciò che si vuole comunicare non è espresso solo tramite ciò che è manifesto, ossia i tratti eseguiti, ma anche servendosi di ciò che è non-manifesto, la parte del foglio lasciata intatta.

Ma forse la pratica tradizionale che più si avvale di un tipo di comunicazione Non-Verbale fra quelle orientali è il Teatro No^.

Assistere ad una rappresentazione di teatro tradizionale giapponese, chiamato teatro No^ , vuol dire prendere parte ad un evento davvero singolare.

Per lo più il genere rappresentato è quello drammatico. Si tratta di storie classiche di eroi e principesse con un’inevitabile tragica fine. Ma la particolarità di questa forma d’arte è che l’intera storia viene narrata unicamente col movimento del corpo degli attori. Differentemente dal nostro cinema d’inizio novecento, con cui il No^ condivide il muto, gli attori nipponici non possono servirsi nemmeno della mimica facciale in quanto obbligati ad indossare particolari maschere per tutta la rappresentazione.

Tali maschere (per sona, in latino) possono raffigurare i personaggi più svariati. Variopinte in espressioni truci per raffigurare l’Oni maligno, con lunghe barbe e baffi se raffigurano il guerriero, Bushi, o candide ed impersonali, per raffigurare i ruoli femminili, che pure vengono interpretati da attori di sesso maschile. Conosciuta come Haragei, la comunicazione “che va al di la delle parole” è, nella tradizione del Sol levante, appannaggio esclusivo dei Bodishattva, gli illuminati.

“Hara” è il termine con cui i giapponesi indicano la zona ventrale. Convinti che essa sia la residenza degli aspetti spirituali dell’essere umano, ha sempre rivestito un’importanza fondamentale in tutti gli aspetti della tradizione di quel popolo.

Le relazioni tra gli individui erano, in realtà, viste come relazioni tra gli Hara, cioè relazioni dirette tra i pensieri ed i sentimenti degli individui stessi.

Nelle Arti Marziali, lo sviluppo dell’Hara, individuato inoltre come centro fisico del nostro corpo, riveste un ruolo primario nel cammino del praticante. Non per niente, gli esercizi di preparazione alle gare di Sumo, i cui lottatori presentano una preponderanza della loro fascia addominale, consistono in pesanti accosciate al tappeto, per abbassare il loro cento, ed in percussioni ripetute sull’Hara per svuotarlo da tutto ciò che è estraneo al combattimento.

Per lo stesso motivo, le raffigurazioni del Budda, lo vedono sempre ritratto con un ventre prominente. 

Anche il suicidio rituale dei Samurai, il famoso Hara-kiri (il taglio del ventre) sottolinea proprio come essi, convinti che il loro centro emozionale e quindi relazionale fosse proprio la pancia, si squarciavano il ventre con due tagli per permettere allo spirito di liberarsi dal corpo senza restarne imprigionato

Fabio Branno



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